CATTIVI SCIENZIATI E' possibile creare un cervello da zero? I risultati di uno studio

Negli ultimi anni, i neuroscenziati sono stati in grado di ricreare "in vitro" delle reti neurali funzionanti, ma questo ha sollevato interrogativi bioetici importanti.

ENRICO BUCCI 21 SET 2023 ilfoglio.it lettura5’

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Possiamo creare un cervello da zero? Nel 1983, Geoffrey Hinton dell'Università di Toronto in Canada e Terry Sejnowski, all'epoca presso la Johns Hopkins University a Baltimora, Maryland, suggerirono che il cervello potesse essere visto come una macchina che prende decisioni circa il mondo esterno utilizzando una logica basata sulla probabilità bayesiana, ovvero aggiornando la stima della probabilità di un evento o un enunciato sul mondo man mano che emergono nuove informazioni. Negli ultimi dieci anni, i neuroscienziati hanno scoperto diversi tipi di cervelli sembrano funzionare proprio in questo modo. In esperimenti sulla percezione e sull'apprendimento, le persone tendono a fare stime - della posizione o della velocità di un oggetto in movimento, ad esempio - in modo che è perfettamente descrivibile sulla base della teoria della probabilità bayesiana. In effetti, fare previsioni e rivalutarle sembra essere una caratteristica universale del cervello: in ogni momento, esso valuta i suoi input e li confronta con le previsioni interne per dare un senso al mondo. Approcci correlati che utilizzano ciascuno la teoria della probabilità bayesiana per comprendere un aspetto specifico della funzione cerebrale, come la comprensione delle parti di un discorso man mano che esso procede, il riconoscimento degli oggetti o l'apprendimento delle parole, sono risultati possedere un superiore potere esplicativo e funzionale, nei loro rispettivi ambiti.

Intorno al 2005, lavorando a partire da questo approccio il neuroscienziato Karl Friston propose che il principio secondo il quale il cervello tende ad aggiornare il suo stato interno (qualunque sia il parametro considerato, come la sua attività elettrica, l’architettura delle connessioni fra neuroni eccetera) in modo tale che la sua rappresentazione del mondo esterno differisca il meno possibile da ciò che riceve attraverso i sensi, fosse di validità generale, al di là dell’ambito delle neuroscienze considerato. Il cervello, cioè, nel suo complesso agisce per “minimizzare la sorpresa”, ovvero una stimolazione elettrica di certi neuroni diversa da quella attesa, nelle sue interazioni attraverso i sensi con il mondo esterno. Per minimizzare questa differenza, Friston ragionò che potessero verificarsi due cose: il cervello potrebbe cambiare la sua previsione (ovvero aggiornare il suo stato interno, cambiando qualcuno dei parametri fisiologici e strutturali in risposta agli stimoli inattesi) o cambiare il modo in cui raccoglie dati dall'ambiente modificando i propri sensi (per esempio, ascoltando più attentamente, guardando in più direzioni eccetera) così da attuare un secondo confronto fra previsione di stimolazione e stimolazione effettivamente ricevuta. In breve, tutto ciò che può cambiare nel cervello cambierà per sopprimere gli errori di previsione sul mondo esterno, dall'attività dei neuroni alla connettività tra di essi, dai movimenti dei nostri occhi alle scelte che facciamo nella vita quotidiana.

Sviluppando matematicamente questi concetti, Friston è giunto a formulare un principio di “minimizzazione dell’energia libera” da parte di cervelli (e reti neurali). Non è qui il caso di entrare nei dettagli connessi al perché egli usa il termine “energia libera”, tipico della termodinamica; basterà qui ricordare gli stretti legami fra quella branca della fisica e la teoria dell’informazione, legami scoperti a partire dall’uso degli stessi formalismi matematici e di un approccio probabilistico, che sono esattamente gli stessi punti di partenza utilizzati da Friston per descrivere in termini generali il funzionamento bayesiano degli insiemi neuroni, a qualunque livello.

Le applicazioni della teoria di Friston si sono riverberate immediatamente sull’apprendimento artificiale e sulle tecniche connesse, ma credo che senza dubbio gli esempi più interessanti di risultati conseguiti da quella teoria si trovino in un campo affascinante, quello del cosiddetto “cervello in provetta”, ovvero delle reti neurali ibride. Le reti neurali ibride rappresentano una delle frontiere più intriganti nell'ambito dell'intelligenza artificiale e della neuroscienza. Il cuore pulsante delle reti neurali ibride sono i neuroni biologici coltivati in vitro. Questi neuroni sono prelevati da colture cellulari di animali o, in alcuni casi, da colture di neuroni umani, come cellule staminali neurali. Una volta coltivati, i neuroni iniziano a sviluppare connessioni sinaptiche tra loro, creando una rete biologica attiva. Accanto a questa rete biologica, troviamo i circuiti artificiali realizzati con l’usuale tecnologia del silicio, a fungere da interfaccia fra il mondo esterno e i neuroni viventi. Questi circuiti possono includere microelettrodi che registrano l'attività neurale, amplificatori per migliorare i segnali deboli provenienti dall’esterno e dai neuroni stessi e circuiti di elaborazione dati che interpretano l'attività neurale, così da azionare attuatori che modifichino l’ambiente circostante.

La rete di neuroni, coltivata su una piastra munita di elettrodi, invia segnali elettrici ai circuiti elettronici e ne riceve, a seconda di quanto appositi sensori artificiali misurano nell’ambiente; come previsto dalla teoria di Friston, in risposta ai segnali provenienti dai sensori essa adatta la propria struttura. In particolare, il processo può essere spiegato descrivendo come i singoli neuroni interagiscono dopo essere stati esposti a uno stimolo nuovo. Il neurone A "prevede" che il neurone B risponderà allo stimolo proveniente da un elettrodo in un certo modo. Se la previsione è errata, il neurone A cambia la forza della sua connessione con il neurone B, finché lo stimolo proveniente da B su A dopo esposizione al segnale esterno varia il meno possibile, dopo stimolazione di B per esposizione dei sensori elettronici all’ambiente. In questo caso, il cervello modifica le sue previsioni interne fino a quando non minimizza l'errore, e ne risulta l'apprendimento o la formazione di memoria. Dopo aver sviluppato la tecnica per realizzare sistemi ibridi del tipo di quelli descritti, si è dimostrato come un sistema ibrido di questo tipo è capace di comandare il movimento di un robot per evitare ostacoli, e, arrivando ad una scala del cervello di un insetto, ovvero 800.000-1.000.000 di neuroni (umani o animali), si è mostrato come un “cervello in provetta” possa apprendere in pochi minuti (molto più velocemente di qualunque software di intelligenza artificiale) a giocare ad un videogioco, anche se magari commettendo più errori.

L’azienda che ha sviluppato questo ultimo prototipo, la CorticalLabs, è più che mai decisa a portare ancora più avanti lo sviluppo; nelle parole enfatiche di uno dei fondatori, l’obiettivo è “crescere una mente”, perché “Non stiamo cercando di fornire ai computer un algoritmo di apprendimento migliore. Non stiamo mettendo copie di noi stessi sui chip dei computer. E non stiamo creando piccoli esseri umani per le tue tasche. In effetti, non sappiamo cosa stiamo realizzando, perché prima non è mai esistito nulla di simile. Un modo di essere completamente nuovo. Una fusione di silicio e neurone. Un nativo del mondo digitale illuminato dal fuoco prometeico della mente umana.” Quanto queste parole – non sappiamo cosa stiamo realizzando – siano guidate da considerazioni di marketing visionario e quanto corrispondano a realtà, meriterebbe una discussione che qui non possiamo fare; tuttavia, i limiti etici e le incertezze legate al rapidissimo progresso di queste tecnologie sono così evidenti, che la stessa comunità di ricerca coinvolta comincia a farsi domande e a cercare di stabilire dei limiti chiari.

Come i ricercatori sottolineano, il problema non è solo quello dei rischi per noi, ma quello dello stato morale che si può dedurre per queste entità ibride: potranno, per esempio, soffrire? Quale coscienza potranno sviluppare? La ricerca di frontiera interroga tutti, e le risposte devono arrivare non solo dai neuroscienziati e dagli ingegneri, ma anche da filosofi, bioeticisti e altri esperti: come sempre, il vero progresso non può che essere multidisciplinare

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