Falsi dati e falsi magri. Dietro certa retorica dell'Expo sulla fame

La puntata di "Oikonomia" di oggi, come ogni lunedì, qui l'audio su Radio Radicale e qui di seguito il testo.

di Marco Valerio Lo Prete | 04 Maggio 2015 ore 13:40 Foglio

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"Non è più accettabile che 800 milioni di persone nel mondo soffrano la fame mentre altre soffrono di obesità, non è più accettabile un mondo in cui foreste e mari sono sfruttati in maniera indiscriminata: è questo il messaggio che deve partire da Milano". E' con affermazioni simili da parte delle autorità civili e religiose più autorevoli, affermazioni rilanciate a reti unificate in queste ore di apertura dell'Expo di Milano dedicato a "nutrire il pianeta", che si rischia di offrire un'idea fuorviante dello sviluppo economico globale negli ultimi decenni. Non che ad oggi manchino nel pianeta le persone che soffrono per denutrizione, intendiamoci, o per mali a essa connessi. Né l'ineguaglianza è tema che le élite mondiali debbano relegare nel dimenticatoio. Ma una enfasi eccessivamente retorica e largamente decontestualizzata fanno perdere di vista quello che è stato il senso di marcia dell'economia globalizzata negli ultimi anni.

A proposito dello stato della fame nel mondo, per esempio, si potrebbe iniziare ricordando gli Obiettivi per il Millennio stabiliti dalle Nazioni Unite negli anni 90. Obiettivo numero uno era il dimezzamento, tra il 1990 e il 2015, della percentuale di persone che vivevano in condizioni di "povertà estrema". La stessa ONU ha fatto sapere che questo obiettivo è stato centrato con cinque anni di anticipo; nel 1990, quasi il 50% delle persone nei paesi in via di sviluppo viveva con meno di 1,25$ al giorno, ma questa percentuale si è abbassata fino al 22% nel 2010.

Sempre in cima alla lista degli Obiettivi per il Millennio c'era il dimezzamento, tra il 1990 e il 2015, delle persone che soffrono la fame. La Fao di recente ha fatto sapere che nel pianeta sono circa 800 milioni le persone che soffrono di sottonutrizione. Non sono poche, costituiscono oltre l'11% della popolazione mondiale. Ma quello che spesso si omette di dire è che, per la stessa ONU, all'inizio degli anni 90 la percentuale di abitanti del pianeta che soffriva la fame era quasi doppia, tra il 18 e il 23 per cento a seconda delle stime; nel triennio 2011-13, secondo l'ONU, c'erano 173 milioni di persone in meno che soffrivano la fame rispetto al triennio 1990-92; insomma, una drastica riduzione della popolazione affamata del pianeta è già in corso, Expo o non Expo.

Non è un caso se pure il matematico ed economista Angus Deaton, oggi all'Università di Princeton, non ascrivibile alla categoria degli "aedi" del libero mercato, abbia scelto di dedicare il suo ultimo libro – appena tradotto in Italia dal Mulino – a quella che chiama "la Grande fuga". Se il film del 1963 raccontava la fuga di un gruppo di soldati da un campo di prigionia nella Seconda guerra mondiale, Deaton con dovizia di dati e rifuggendo da conclusioni troppo tranchant, descrive quello che secondo lui è il fenomeno più macroscopico dell'èra contemporanea, cioè "la fuga del genere umano dalla deprivazione e dalla morte precoce". Deaton, superando gli steccati che separano ancora economisti classici, studiosi della salute pubblica e demografi, prende in esame l'evoluzione delle condizioni di vita materiali e della salute, nel tentativo di offrire un'immagine più completa di quello che definisce "benessere". La sua tesi di fondo è che la rivoluzione industriale che prese il via tra il XVIII e il XIX secolo nel Regno Unito, presto seguita dalla Grande divergenza con cui Europa nordoccidentale e Stati Uniti staccano il resto del mondo, "rientrano tra gli episodi di fuga che hanno causato meno danni nella storia. In molte altre circostanze, infatti, lo sviluppo di un paese si è verificato a spese di un altro". E' il caso, dice lo studioso, dell'età imperiale del XVI o XVII secolo, con paesi e popoli saccheggiati in giro per il mondo. Oggi la diseguaglianza resta "ancella dello sviluppo", per usare la formula di Deaton, ma il mix di "pensiero illuminista, rivoluzione industriale e messa a punto della teoria microbica delle malattie" hanno resto effettivamente il mondo migliore. Il reddito che cresce è una parte della storia. "Tra il 1991 e il 2008 il numero totale delle persone povere (o che vivono con un solo dollaro al giorno) è diminuito di circa 750 milioni di unità, e questo benché la popolazione totale dei paesi poveri sia cresciuta di circa 2 miliardi di unità. Ne segue che la quota della popolazione mondiale costretta a vivere con meno di un dollaro al giorno è scesa dal 40 al 14%".

Secondo l'economista, inoltre, "il mondo oggi è più sano di quanto sia forse mai stato nella storia. La gente vive più a lungo, è più alta e forte, e i bambini hanno meno probabilità di ammalarsi e di morire".  "Secondo le Nazioni Unite, in 15 anni, tra il 1950-55 e il 1965-70, le regioni del mondo meno sviluppate hanno visto la loro speranza di vita aumentare di più di 10 anni, da 42 a 53. Nel 2005-10, a quest'aumento se n'era aggiunto un secondo di 13 anni, cosicché si è arrivati a 66. Benché la vita si sia allungata anche nelle regioni più sviluppate, ciò è avvenuto in misura molto minore". In Europa del nord "la speranza di vita, di 69 anni poco dopo il 1950, all'inizio del XXI secolo aveva guadagnato 10 anni; (…) le altre regioni considerate - Estremo oriente, America latina e Caraibili, Sud est asiatico, Asia meridionale e Africa subsahariana – hanno tutte guadagnato più di 10 anni, cosicché le loro rispettive distanze dall'Europa del nord si sono accorciate. Persino lo svantaggio dell'Africa subsahariana, che pure ha guadagnato medi di tutte le altre regioni, si è ridotto, passando dai 31,9 anni di distanza dei primi anni 50 ai 26,5 del 2005-10". Anche il livello di istruzione, secondo Deaton, è in aumento in molte parti del pianeta: "Sanno leggere e scrivere i quattro quinti della popolazione mondiale; nel 1950 era in grado di farlo solo la metà".

All'Expo si potrà pure continuare a stigmatizzare con parole alate il presunto paradosso della persistente "obesità" a fronte di tanti affamati nel mondo, ma la disciplina economica non ha ancora smesso d'interrogarsi sui possibili effetti benefici di questo paradosso.

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