La trappola della Co2

Millenarismo e calcoli errati. Perché diffidare delle previsioni catastrofiste sul clima

Una donna a cavallo in un parco di Mosca. In questi giorni il freddo siberiano ha portato le temperature della capitale russa a 20 gradi sotto lo zero (foto LaPresse)

di Umberto Minopoli | 10 Gennaio 2016 ore 06:18

Tra revisionismi, correzioni e ipocriti silenzi, la religione del clima è uscita dalla Cop21 di Parigi piuttosto acciaccata. All’apparenza compatta nell’obiettivo prometeico: contenere l’aumento temuto della temperatura del pianeta, entro la fine del secolo, sotto i due gradi (1,5). In realtà, tra le pieghe, pesantemente segnata da divisioni, scetticismi, sospetti, fardelli propagandistici e aspettative non credibili. Premessa: il dogmatismo climatico è segnato da quella che si potrebbe definire la trappola della CO2. Vale a dire, la pretesa di ridurre il clima, fenomeno caotico per eccellenza, a un modello di laboratorio, astratto e informatico, movimentato da un solo fattore: la quantità di CO2 antropogenica immessa in atmosfera. Operazione da sciamani. Predire matematicamente il clima, ammonisce il bistrattato professor Antonino Zichichi, comporterebbe l’uso di equazioni differenziali con un numero di variabili troppo elevato per consentirne la soluzione. Impresa razionalmente impossibile. E che riporta, piuttosto, alla mente il diavoletto di Maxwell che divide le singole molecole di gas (per ridurre la probabilità a certezza) o l’apologo di Laplace: “…se esistesse una possibilità di calcolare e misurare i movimenti di ogni singola particella fisica, sarebbe possibile descrivere passato, presente e futuro del mondo con esattezza matematica…”. Esattamente quello che pretendono di fare gli ideologi dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), il club internazionale di esperti governativi custode della dottrina ufficiale sul clima. E’ ovviamente impossibile controllare le interazioni della meccanica del clima, al fine di prevederne l’evoluzione. Un calcolo che comporterebbe, esattamente come il diavoletto di Maxwell, la misura di ogni gas o composto atmosferico e del feedback con fattori, naturali e artificiali, variabili nel tempo. Impossibile. E così, per comodità intellettuale, i modellisti del clima hanno ridotto gli algoritmi a una sola variabile: i tassi di CO2 antropogenica immessi in atmosfera. Rasoio di Occam? No: riduzionismo elementare. Che produce, perciò, modelli irreali, distanti da un effettivo rispecchiamento della realtà, artificiali e, puramente, ipotetici. Basti dire che vengono esclusi, dagli algoritimi della modellistica del clima, i fattori chiave dei suoi andamenti evolutivi, quelli naturali: attività del Sole, magnetismo terrestre, oscillazioni orbitali, irraggiamento cosmico eccetera. Perché? Non tanto per la difficoltà di misurare tali fattori quanto una pretesa programmatica intenzionale: isolare l’attività umana (la CO2 antropogenica) come esclusivo fattore di incidenza. Al fine di farne l’imputato unico del riscaldamento. Una metodologia, osserverebbe Einstein, poco “elegante”. Essa semplifica l’oggetto indagato, il clima, oltre il lecito e il necessario, riduce eccessivamente la complessità delle variabili e insinua nei calcoli un solo fattore ad hoc, una singola costante, i volumi di emissione della CO2, per giungere a esiti pre-determinati. Nella dottrina del clima, i tassi di emissione della CO2 antropica funzionano come una sorta di termometro artificiale: tarato su una scala in cui a ogni grado di misura delle emissioni corrispondono temperature. E a ogni grado di temperatura corrispondono eventi deterministici ed effetti conseguenziali. Fino a una soglia, i due gradi di aumento rispetto alle medie attuali, che segna un avvento: l’inizio di un’epoca di catastrofi. Insomma: millenarismo.

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Nella letteratura dell’Ipcc, l’evoluzione climatica viene raffigurata in modelli predittivi e “scenari” (a 20, 30 o 50 anni e più) fondati, tutti, sulle medesime premesse metodologiche e differenziati, negli esisti predeterminati, solo in base ad assunzioni del comportamento umano. Davvero l’uomo funziona, nei modelli dell’Ipcc, come il prometeico regolatore del clima. Una proto-scienza, insomma, quella dell’Ipcc e una sorta di religione con tutti gli ingredienti conseguenti: la pretesa del devotismo dai credenti, l’irrisione degli scettici, la scomunica dei negazionisti. Dagli “scenari” proto-scientifici dell’Ipcc, si pretende di dedurre prescrizioni e dettare comportamenti per i policy makers, condotte dei governi e contenuti delle agende politiche. Il problema è che, col passare degli anni (siamo ormai con quella di Parigi del 2015 alla 21ma Conferenza sul clima e a 25 anni dalla “madre” di tutti gli eventi sul riscaldamento climatico, la Conferenza di Kyoto del 1997) la dottrina del clima mostra una crescente e imbarazzante contraddizione: l’allarme degli esiti catastrofici sale sempre più, e sempre più ravvicinato, ma l’efficacia delle prescrizioni si rivela, crescentemente, discutibile. Di più: la CO2 antropica, isolata ed esagerata come esclusivo fattore scatenante dei cambiamenti, si rivela una trappola. Laddove i suoi effetti sono descritti, ansiologicamente, come sempre più minacciosi, la possibilità e la capacità anche solo di mitigarne il peso in atmosfera si dimostra impossibile. In 25 anni di politiche anticarbonifere e in 20 anni di denunce e prescrizioni dell’Ipcc, la quantità di CO2 antropica in atmosfera è aumentata del 60 per cento. E con essa i costi della (inefficace) mitigazione. I criteri e le ricette della dottrina del clima inchiodano i governi a condotte e agende tanto più costose quanto inefficaci ai fini dell’obiettivo dichiarato: un arresto della crescita delle emissioni. Una dottrina, quella del riscaldamento del clima, nata per contestare la sostenibilità dei modelli di sviluppo dell’ultimo secolo e mezzo, si va dimostrando, crescentemente, insostenibile nella costosa inefficacia delle prescrizioni. Negli ultimi quindici anni, tra l’altro, in cui la CO2 è sempre aumentata, non si registrano aumenti delle temperature. La correlazione clima-CO2 non appare così salda. Appare salda, al contrario, la correlazione inversa tra costi delle politiche climatiche ed efficacia. Il burden economico delle politiche del clima, tra il 2005 e il 2015, è impressionante: 176 miliardi di dollari (dati World Bank del 2011). E solo considerando il global carbon market: l’enorme bolla alimentata dal trading delle emissioni e dai progetti di investimenti verdi. A questi volumi della finanza verde vanno aggiunti il costo degli incentivi fuori mercato alle energie rinnovabili e la fattura legata all’import dei loro componenti impiantistici. Questo enorme esplosione finanziaria (in cui è prevalsa, col tempo, la componente puramente speculativa) ha partorito un aumento delle emissioni di CO2 e un costo dell’energia crescente. L’80 per cento del fardello di queste politiche si è concentrato in Europa. Dove, non a caso, il decennio del global carbon market ha coinciso con la crescita lenta, la crisi del debito e l’arretramento manifatturiero. Il bilancio delle politiche verdi comincia a indurre stress nei governi. E a Parigi lo si è avvertito. La trappola della CO2 comincia a far sentire la stretta dei suoi lacci. E fa aggrovigliare i calcoli. Il bilancio dei 25 anni alle spalle pesa. Il 90 per cento del mondo, formalmente, sottoscrive l’impegno della Cop21: tenere le temperature del pianeta sotto i due gradi di aumento nel 2050. Ma il percorso verso l’obiettivo è del tutto incerto, evanescente e problematico. Azzerare in 34 anni le emissioni di CO2 (aumentate invece, come abbiamo visto, del 60 per cento negli ultimi 25) è, palesemente, irrealistico. Nelle stesse conclusioni della Cop21 il problema si è evidenziato in modi bizzarri: da un lato, l’unanimità commossa sull’obiettivo di contenere l’aumento di temperatura sotto i due gradi; dall’altro, l’evidenza che gli impegni sottoscritti dai governi portano a sforare quel tetto e ad attestare l’aumento delle temperature, oltre la soglia, a 2,7 gradi. Come dire: piena catastrofe (se stessimo alle assunzioni dell’Ipcc). Quello che appare sempre più imbarazzante per molti osservatori e policy makers è l’impasse delle politiche climatiste: raggiungere l’azzeramento delle emissioni serra entro il 2050, attraverso la sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili e con il risparmio energetico, è tecnicamente irrealizzabile. I conti dell’Ipcc non stanno in piedi.

Il World Energy Outlook (WEO) smentisce, clamorosamente, scenari e aspettative del climatismo ufficiale: nel 2040 le fonti fossili ed emissive peseranno, ancora, per il 55 per cento dei consumi energetici (solo 15 per cento di riduzione, quindi, rispetto ai consumi attuali); le fonti rinnovabili rappresenteranno solo un quarto del mix di energia del 2040 (e solo comprendendo il nucleare tra le fonti carbon free). Il nucleare, tra l’altro, con buona pace di Greenpeace, è la fonte che conoscerà il maggiore boost rispetto ai dati attuali (con una crescita del 60 per cento). Questa è la vera novità. Che gli ideologi dell’Ipcc non avevano considerato. La percezione crescente di un ruolo limitato delle tecnologie rinnovabili come sostituzione delle fonti fossili, ha riproposto l’attualità e l’indispensabilità del nucleare come fonte carbon-free. Con evidente imbarazzo dell’attivismo climatista. L’esistenza di una quota di energia nucleare, attestata più o meno intorno ai livelli attuali (6 per cento di contributo di energia e 11 per cento di energia elettrica) è, ormai, eliminabile in qualsiasi scenario realistico di mix energetico che intenda ridurre la quota di gas e carbone. Con 438 reattori attivi in 30 paesi e una potenza installata di 400 Gwe, il nucleare è diventato imprescindibile nella contabilità della de-carbonizzazione: in termini di CO2 evitata e in termini di mix futuro. Senza la stabilizzazione della quota attuale di contributo del nucleare al portafoglio energetico non sarebbe ipotizzabile alcuno scenario di riduzione delle fonti fossili. Archiviati, ormai, irrazionalismi ed emotività del post-Fukushima, la partita del nucleare si gioca non piu’ sulla sicurezza ma, solo sulla sua affordability economica: i costi degli investimenti fissi piu’ alti comparati a quelli degli impianti fossili (gas e carbone).

Uno scenario destinato a cambiare: per il peso che assumeranno le politiche di tassazione della CO2; per la possibile ripresa di investimenti orientati al lungo periodo: le tecnologie di oggi consentono ad una centrale nucleare un ciclo vita di oltre 60 anni rispetto ai 20 di media degli impianti fossili. In ogni caso la de-carbonizzazione totale è un mito da sfatare. Secondo il WEO lo scenario che ne prevede la realizzabilità al 2050, risulterà già vanificato nel 2040. I numeri evidenziano un racconto del tutto diverso. Le fonti fossili (gas e carbone) copriranno, alla fine del secolo, ancora oltra la metà del mix energetico. Le energie rinnovabili non riusciranno a essere sostitutive delle fonti convenzionali (gas, carbone e nucleare) e si attesteranno, inesorabilmente, intorno al 30 per cento del mix energetico. Il risparmio energetico non porterà a una decrescita dei consumi di energia ma, in base al cosidetto paradosso di Jevons e al rebound effect (“una risorsa energetica, resa più efficiente, è usata di più”) piuutosto ad un aumento di essi. La de-carbonizzazione entro questo secolo, dunque, non esiste. E, conseguentemente, si dovranno rivedere le correlazioni, schematiche e perentorie, tra CO2 e temperatura imposte dalla dottrina del clima. Ben più importante, nel medio periodo, sarà un dilemma che va insinuandosi, dietro l’immagine di facciata delle foto di gruppo di Parigi. Gli ultimi 25 anni, in contrasto con la retorica climatista, hanno registrato un aumento continuo delle emissioni di CO2. Secondo alcuni a tassi che sono i più alti di sempre. Sarà un caso che gli ultimi due decenni sono stati anche quelli di una prepotente riduzione degli indici di povertà? E dell’ingresso, a un ritmo inedito nella storia moderna, di due miliardi di persone nel perimetro dello sviluppo? C’è una correlazione tra i due processi? C’è chi non si sente di escluderlo. E inoltre. Per i prossimi 34 anni (fino al 2050) la politica “ufficiale” del clima si propone non più una “mitigazione” degli impatti emissivi ma, addirittura, un azzardato “azzeramento” delle emissioni fossili e, comunque, un loro drastico abbassamento. Quale sarà l’effetto sociale di tale proposito? Come abbiamo visto l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni carbonifere è tecnicamente irrealizzabile dal lato della generazione di energia (le fonti rinnovabili si attesteranno solo sul 30 per cento del mix di energia e sul 40  per cento di quello elettrico). E allora? Il timore è che possa farsi strada l’idea di abbordare l’azzeramento delle emissioni dal lato, invece, dei consumi. C’è un dato piuttosto inquietante degli scenari dell’Ipcc per il 2050: la scarsa considerazione e, spesso, il silenzio sul tema dei consumi energetici futuri.

Qualcuno (R. Partenen & M. Korhonen, “Climate Gamble”) vi ha visto il gioco d’azzardo che allignerebbe nella contabilità energetica del climatismo ufficiale: la velleità e l’illusione di congelare, sul lungo periodo, i consumi di energia. Tendenzialmente la domanda di energia nel mondo aumenterà del 37 per cento già nel 2040. La popolazione mondiale, dai 7 miliardi attuali, raggiungerà i 10 miliardi di persone nel 2050. Gli scenari dell’Ipcc riflettono scarsamente questo dato. Nei modelli più ottimistici del club del clima si percepisce una convinzione: al 2050 la dotazione di energie rinnovabili sarà tale da coprire, da sola, il livello attuale di consumi energetici. Appunto: il livello attuale! E che ne facciamo della domanda di energia di tre miliardi di persone in più esistenti a quella data? Proiettato sulla popolazione mondiale al 2050, il livello attuale di consumi soddisfarrebbe solo un terzo del fabbisogno energetico dell’unanità. Per non parlare dei numeri diffusi nei programmi dell’ambientalismo radicale. Per Greenpeace al 100 per cento dei fabbisogni energetici al 2050 provvederanno fonti rinnovabili (80 per cento) e risparmio energetico (20 per cento). Ma il fabbisogno ipotizzato al 2050 è l’attuale livello dei consumi. Vale a dire: 9 miliardi e mezzo di persone dovrebbero, necessariamente, dimezzare il consumo di energia oppure, in cambio, 3 miliardi e mezzo di persone dovrebbero rinunciare, quasi del tutto, a consumare energia ed elettricità. Il sospetto dei paesi poveri o in via di sviluppo verso le implicazioni sociali e sottosviluppiste della de-carbonizzazione è, dunque, fondato. La trappola della CO2 può operare, effettivamente, come un fattore di freno dello sviluppo: nell’impossibilità tecnica di sostituire le fonti fossili dal lato della generazione di energia, qualcuno immagina, follemente, di realizzare l’obiettivo dal lato dei consumi. Una prospettiva terrificante di impoverimento e di stagnazione. E una clausola dissolvente formidabile frapposta alle aspettative dei paesi in ritardo. Strano che questo sospetto sociale e malthusiano della retorica della de-carbonizzazione sia sfuggito alla chiesa della Laudato si’. A Parigi, invece, nel backstage delle celebrazioni ufficiali della Cop21, la diffidenza sociale e la preoccupazione del gamble stagnazionista si è fatta avvertire: con il nulla di fatto sulle ipotesi di massiccio ricorso alla tassazione del carbonio; con il rifiuto dei paesi poveri di aderire, sin da oggi, a impegni troppo vincolanti sulle emissioni future; con lo stesso ridimensionamento lessicale della de-carbonizzazione nei documenti ufficiali; con la richiesta di massicci trasferimenti verso i paesi poveri. La talpa del revisionismo climatico sembra aver iniziato a scavare.

Categoria Ambiente

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