Cosa possono fare i grandi partiti per non farsi sedurre dalle sirene del protezionismo

I partiti della nazione avranno la meglio sui nemici dell’apertura solo combattendo la teologia del Dio denaro. Nuovi bipolarismi

di Giuliano Ferrara | 02 Agosto 2016 ore 06:00 Foglio

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La cancellazione del discrimine tra destra e sinistra era diventata nel tempo una stucchevole filastrocca. Per quelli di sinistra, un modo di stare a destra, ma più comodi, dalla parte del progresso anche loro. Per quelli di destra, una furbata che svirilizza e alla fine spegne ogni passione ancorata nella tradizione, e conduce al politicamente corretto. Una schermaglia ideologica, ma senza radici nella realtà. Poi è arrivato l’Economist, che essendo il giornale più intelligente del mondo ha fatto i suoi collegamenti, ha argomentato “la nuova linea di divisione politica” tra chiusi e aperti (drawbridge uppers e drawbridge downers: quelli che vogliono alzare i ponti levatoi e quelli che no), superando il vecchio confine di destra e sinistra, e ha spiegato con tratto analitico invece che con spirito retorico la principale trasformazione in corso nelle società occidentali sviluppate.

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Non c’è niente di assolutamente nuovo nella ricognizione dell’Economist. Si parte dallo strano e bilaterale carisma del nazionalismo isolazionista di Trump, nelle sue commistioni con quello di Sanders sul terreno comune della diffidenza per il libero commercio internazionale nell’epoca della globalizzazione; si parla dei redditi stagnanti negli ultimi due decenni, della ruggine nelle città delle ciminiere e nei comprensori industriali, della dinamica demografica con il declino dei nativi bianchi occidentali e il loro rimpiazzo con ondate forti immigratorie, spesso senza vera integrazione, al contrario di quanto avveniva nel passato americano del melting pot; si fanno i conti con le questioni dell’ordine, della giustizia, dello scontro di criteri di vita in ogni campo, compreso il gender e la famiglia e il sesso; si racconta la tecnologia futuribile con le sue mirabilie e con le rinunce che impone nel mercato del lavoro; si fanno i casi della Polonia, dell’Austria, a volo d’uccello si sorvolano le democrazie del nord Europa, ci si misura con le questioni derivanti dal terrorismo islamista e dal suo impatto in Francia, Belgio, Germania (con una certa prudenza quanto allo sfondo tragicamente religioso delle incursioni in terra miscredente). Insomma, sono messe in rassegna con acume e precisione tutte le cose che crediamo di sapere e i cui dettagli ci attendiamo di leggere nella buona stampa e informata.

Ma c’è qualcosa di più, qui non sono solo dati e riflessioni su società, mercato del lavoro, banche e finanza, produzione e sviluppo, illuminate dalla nota ideologia liberale modernista del settimanale britannico. E questo qualcosa di più è la conclusione che l’Economist trae dal panorama descritto.

Primo. Non dobbiamo disperare. I nemici della apertura (dei mercati e di molto altro) hanno per loro il momentum, ma i giovani elettori secondo tutte le ricerche stanno dalla parte opposta, sono meglio istruiti, e se il voto sulla Brexit si svolgesse fra dieci anni gli unionisti che volevano mantenere il più poderoso mercato liberato e unificato della storia vincerebbero senza problemi.

Secondo. I mercati aperti devono essere difesi con orgoglio, senza cedere (come in parte fa la Hillary Clinton) alla tentazione del compromesso con le posizioni neoprotezioniste: quei mercati hanno ridotto la povertà, hanno aumentato la ricchezza, possono e devono subire correzioni nella distribuzione ineguale del reddito e del lavoro, ma sono la fonte assoluta della prosperità e dei grandi successi raggiunti nell’occidente che conosce quel che nessun altro conosce, il welfare, il benessere, la cura pubblica e la tutela della persona privata e della famiglia.

Terzo. Con un forte discorso, possibilmente l’opposto della teologia del popolo di Papa Francesco, che polemizza con i costruttori di muri per criticare il Dio denaro e non per opporre la loro chiusura nazionalistica alle virtù di sviluppo e di progresso della globalizzazione capitalistica, occorre poi varare alleanze tattiche in grado di contenere e respingere l’assalto ideologico e sociale in corso contro la società aperta e il suo fondamento economico e strutturale: l’Economist parla dei partiti della nazione che, senza sublimazioni propagandistiche, hanno impedito a Jean-Marie Le Pen di conquistare l’Eliseo, e presumibilmente dovranno impedire alla figlia Marine di riuscire nell’impresa fallita dal padre, e spinge per un esame di tutte le altre alleanze tattiche provvisorie, derivate dal nuovo vero confine tra aperturisti e antiglobalizzatori, capaci di evitare al mondo libero “il rischio più grave dai tempi del comunismo”. Tra queste novità e invenzioni tattiche, ovviamente, primeggia quella dei conservatori e repubblicani americani chiamati a scegliere il male minore di Hillary Clinton e a far pesare la loro partecipazione consapevole al conflitto. Lezioni per tutti, di un giornale che sa anche sbagliare, ma con intelligenza e semplicità.

Categoria Cultura

GIUSEPPE VIMERCATI • 2 ore fa

Dissento dal giudizio dato nell'articolo sull'Economist.

L'ho letto per qualche anno a causa abbonamenti ricevuti come regali natalizi;

L'ho sempre trovato un giornale ingiustificatamente pieno di sé, borioso, "politicamente corretto" cosa che, sempre secondo me, è un insulto all'intelligenza. Il tutto aggravato dall'essere "autorevole". Né mi sembra abbia mai brillato per imparzialità e indipendenza

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