In In difesa della politica. La democrazia ha un costo ed è giusto sostenerlo La democrazia ha un costo ed è giusto sostenerlo

Altro che privilegi. Parla il politologo Matthew Flinders: fare politica è un lavoro duro e non può essere solo per ricchi

di David Allegranti 24 Marzo 2017 alle 06:00  da il Foglio.it

Il “gentismo” non fa distinzioni, il politico deve essere povero e infelice come tutti, perché il disagio va collettivizzato, la decrescita (in)felice va applicata anche ai parlamentari. Il sogno gentista è eliminare i “privilegi”, che invece vanno difesi, anche se forse usare questa parola è già un cedimento al lessico populista che scambia lo status, il quale non è solo questione di soldi, per una distinzione di casta. “Elite” è diventata una brutta parola, le istituzioni vanno decostruite, trasformate in macchietta; eppure soprattutto oggi dovrebbero essere un architrave di civiltà cui aggrapparsi. Max Weber intitolò uno dei suoi testi più famosi “La politica come professione”. Praticamente un manifesto: la parola Beruf in tedesco ha un doppio significato, vuol dire sia “vocazione” sia “professione”. Per i populisti di oggi invece non c’è alcuna professionalità nella politica, anzi. Anni di propaganda antipolitica (e di argomenti e pretesti forniti anche dalla classe dirigente, che ha naturalmente le sue responsabilità) hanno prodotto la disaffezione nell’opinione pubblica che conosciamo. Il M5s è in piena campagna elettorale per le elezioni politiche e mena fendenti, dalle indennità alle pensioni dei parlamentari: tutto è privilegio, tutto è un costo da tagliare. Invece andrebbe cercata la giusta misura, che è altra cosa.

“Uno dei primi atti di quando saremo al governo sarà togliervi tutto lo schifo dei privilegi”, ha detto Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, in un improvvisato comizio davanti a Piazza Montecitorio, dove mercoledì c’era un gruppo di qualunquisti riuniti per “circondare il Parlamento”. “Quando vedrete un parlamentare di quelli che hanno mantenuto i privilegi sorridetegli perché la loro fine politica è vicina. Stanno arraffando quel che possono e scappando: è la fine della Seconda Repubblica”. Peccato che Di Maio dimentichi di dire che senza quei privilegi, raggiunti con qualche clic di computer, sarebbe ancora a fare il webmaster fuori corso in Campania e non il vicepresidente della Camera. Insieme a lui c’era anche il compare Alessandro Di Battista, che non si è sottratto al comizio: “Faremo di tutto per andare al voto il prima possibile. Hanno salvato il privilegio delle pensioni ma noi continueremo a chiedere di votare, anche se loro faranno di tutto per arrivare al 15 settembre per avere la pensione” (almeno stavolta non l’ha chiamato vitalizio, visto che non esiste più).

Eppure, dice al Foglio Matthew Flinders, politologo dell’Università di Sheffield, direttore del Sir Bernard Crick Centre for the Public Understanding of Politics e autore del saggio “Defending Politics” (pubblicato in Italia dal Mulino con il titolo “In difesa della politica. Perché credere nella democrazia oggi”), “la democrazia ha un prezzo, ma ci possono anche essere degli abusi. E’ in corso un dibattito sullo stipendio appropriato dei politici e sulla definizione delle spese ‘ragionevoli’. Tuttavia, è una sorta di cortina fumogena. Studi dimostrano che la maggior parte delle persone pensa che un parlamentare dovrebbe ricevere uno stipendio da dirigente pubblico, al pari di quello di un medico ospedaliero o di un dirigente scolastico o di un professore universitario. Le persone sono anche molto felici di sostenere i politici per i costi di viaggio, uffici, personale e in alcuni casi per la necessità di un alloggio per metà settimana. Le persone non sono stupide; c’è un range di stipendi ampiamente accettati, di spese che possono essere identificate, i problemi si verificano solo quando la politica sviluppa un sistema basato sul malcostume e su pratiche non trasparenti. Detto questo, penso che la maggior parte dei politici non lo faccia per i soldi e molti effettivamente devono lottare per trovare un posto di lavoro una volta che lasciano la politica. Il problema, nell’essere troppo severi su stipendi e spese, è che si rischia di creare una professione che solo i ricchi e coloro che hanno un reddito privato possono realisticamente pensare di intraprendere. Quindi la democrazia deve avere un prezzo, ma non è così costosa come qualcuno potrebbe pensare”. Il fatto che debba esistere un punto d’equilibrio non autorizza i populisti a pensare che fare politica sia un’attività come tutte le altre. Anzi, a essere precisi, fare politica deve essere considerato un lavoro, e per giunta non ordinario.

“Essere un politico nazionale – prosegue Flinders – non è un lavoro ‘normale’. Essere primo ministro o un membro del governo richiede una resistenza sovrumana e dunque penso che questo vada accettato e rispettato. Ma ciò non significa che dovremmo pagare i nostri politici con stipendi troppo elevati o permettere loro di vivere per il resto della vita a spese dello stato o con pensioni d’oro a ricompensa di un periodo di servizio pubblico relativamente breve. Una cosa che poche persone sembrano comprendere è che fare il politico è un lavoro davvero duro che non solo influisce notevolmente sull’individuo in questione ma anche sui suoi amici, sulla sua famiglia, sui suoi figli, eccetera”. Quindi, argomenta Flinders, “in un certo senso non è che ‘uno’ entra in politica, inevitabilmente ci si trascina dietro la propria famiglia e i propri amici, condannandoli a entrare nel vortice dell’appetito mediatico per storie e notizie sensazionalistiche. Per questo, spesso rifletto se non sarebbe il caso di offrire una sorta di pacchetto finanziario ‘amici e famiglia’ per supportarli. Ovviamente sto scherzando. Più o meno. Nel Regno Unito si stanno introducendo nuove regole per impedire ai membri del Parlamento di assumere  mogli e mariti o figli come assistenti o ricercatori. Ma essere un parlamentare è talmente impegnativo che spesso l’unico modo che una moglie ha, per esempio, per assicurarsi di passare del tempo con il marito è quello di entrare a far parte del suo staff. La politica può essere un lavoro davvero solitario ed è per questo che così tanti politici professionisti soffrono di alcolismo, depressione, crisi familiari, divorzi”.

Nel suo libro, Flinders non nega le colpe della classe dirigente, più attenta a lisciare il pelo all’opinione pubblica con promesse irrealizzabili che a prendere decisioni impopolari attraverso le quali stabilire paletti non negoziabili. “La competizione democratica – scrive il politologo – ha spinto i politici a promettere ‘sempre di più a un prezzo sempre più basso’ e ha premiato coloro che cercavano di ingraziarsi gli elettori invece di moderarne le aspettative. Il risultato complessivo è stato una distorta propensione all’adozione di politiche espansive, riflessasi nella tendenza alla crescita della spesa e del debito, nelle pretese sempre più esose e nell’esistenza di un divario sempre più palese fra retorica e realtà, che erodeva la fiducia del pubblico nella politica e nei politici”. Non avendo più nulla da promettere, a un certo punto i politici hanno cominciato a offrire all’elettorato la propria autoeliminazione. Di Maio che scende in piazza contro i “privilegi” è solo l’ultimo rappresentante di una (in)gloriosa tradizione e di un evidente cortocircuito: la democrazia liberale si è affermata insieme a forme estreme di scetticismo nei confronti dell’affidabilità dei politici. Come già prima di Flinders aveva osservato John Lukacs, autore di “Democrazia e populismo”, la tipica sfida della governance moderna consiste nel gestire le forme virulente di populismo che, una volta arrivate all’interno delle istituzioni consolidate del governo liberaldemocratico, sono divenute 

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