Rischi di una scuola troppo al femminile

Un rapporto dell’Ocse ci dice che nelle scuole dei paesi industrializzati insegnano soprattutto donne

28.03.17 Maria De Paola da lavoceinfo

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Un rapporto dell’Ocse ci dice che nelle scuole dei paesi industrializzati insegnano soprattutto donne. Le cause del fenomeno possono essere molte. Ma bisogna fare attenzione anche agli effetti perché gli studenti maschi potrebbero risultare penalizzati.

Quante donne in cattedra

Un recente rapporto dell’Ocse evidenzia come la professione docente sia caratterizzata da forti e crescenti squilibri di genere. Le donne costituiscono la maggioranza degli insegnanti nell’istruzione primaria e secondaria, ma diventano minoranza tra i docenti universitari.

Nel 2014, nei paesi industrializzati le donne rappresentano in media il 97 per cento degli insegnanti nella scuola dell’infanzia, l’82 per cento in quella secondaria di primo livelloe il 63 per cento in quella secondaria di secondo livello. Nella formazione terziaria, invece, la percentuale scende al 43 per cento.

Si tratta di un fenomeno che potrebbe intensificarsi in futuro data la predominanza di donne tra i laureati nel campo dell’istruzione. E in Italia, è ancora più marcato: 99 per cento di donne nella scuola d’infanzia, 94 per cento nella scuola primaria, 78 per cento in quella secondaria e 40 per cento in quella terziaria. Per comprendere l’allarme lanciato dall’Ocse è necessario riflettere sia sulle cause sia sulle conseguenze del fenomeno.

Perché le donne tendono a concentrarsi in alcune particolari professioni e settori? Perché i settori con forte presenza femminile sono caratterizzati anche da bassi salari e scarse prospettive di carriera? Date le differenze di genere che contraddistinguo il mercato del lavoro, ciò che può essere conveniente per le donne può non esserlo per gli uomini. Come sottolinea il rapporto dell’Ocse, nei paesi industrializzati gli insegnanti maschi che lavorano nella scuola primaria (e secondaria) guadagnano in media un salario pari al 71 per cento (80 per cento) di quello ottenuto da uomini laureati in altri comparti. Per le donne, invece, lo svantaggio salariale è minore o addirittura nullo: le insegnati della scuola primaria ottengono unostipendio che è circa il 90 per cento di quello ottenuto da donne laureate impiegate in altre attività e lo svantaggio svanisce per i livelli di insegnamento superiori. La convenienza a intraprendere certe professioni può dipendere anche dalla divisione più o meno tradizionale dei compiti all’interno della famiglia e dal supporto offerto dal settore pubblico. In paesi come il nostro, dove gran parte delle attività domestiche e di cura è svolta dalle donne, è facile che esse siano indotte a optare per professioni che permettono una più facile conciliazione. Questi fattori possono operare anche a uno stadio precedente e spingere le donne a scegliere percorsi di studio diversi da quelli degli uomini. Certo, la segregazione scolastica e occupazionale può anche dipendere da differenze nelle preferenze e nelle attitudini. La loro forte presenza tra le maestre potrebbe essere dovuta al fatto che le donne sono naturalmente (geneticamente) orientate a lavorare con i bambini. Il fatto che le donne siano segregate in occupazioni che corrispondono salari minori può essere anche il frutto di particolari preferenze, quali una maggiore avversione al rischio, una minore propensione alla competizione o un maggior altruismo. Tuttavia, distinguere il condizionamento sociale dai gusti è un esercizio difficile ed è per questo che una minore segregazione occupazionale e scolastica ci rassicurerebbe sulle uguali opportunità disponibili a uomini e donne.

Gli effetti sugli studenti

La femminilizzazione dell’insegnamento è però rilevante anche per le conseguenze che può produrre sul rendimento degli studenti. Un divario di genere poco discusso (da alcuni detto “silente”) è quello relativo ai peggiori risultati dei maschi nell’ambito dell’istruzione. Non solo in molti paesi il numero di donne che si laureano ha superato quello degli uomini, ma spesso gli studenti maschi sono sovra-rappresentati tra coloro che abbandonano prematuramente la scuola e tra i ripetenti. Per qualche motivo sembra che i maschi traggano minore vantaggio dal sistema scolastico delle femmine e qualcuno ha puntato il dito contro l’eccessiva presenza di insegnanti donne. Secondo alcuni studi infatti gli studenti traggono beneficio dall’avere docenti del loro stesso genere. In un lavoro dal titolo “A teacher like me: Does race, ethniticy or gender matter?” si mostra che essere assegnati a una insegnante donna produce un effetto positivo (anche se non molto grande) sulle studentesse, mentre ne determina uno negativo piuttosto rilevante sugli studenti maschi. Ciò può dipendere dal fatto che gli insegnati spesso diventano modelli di riferimento ed è più difficile identificarsi con uno di genere (o di etnia) diverso dal proprio. Può anche essere che insegnanti maschi e femmine adottano comportamenti diversi a seconda del genere degli studenti. Ad esempio, considerando i dati relativi agli studenti italiani di prima media (per cui si dispone sia della valutazione degli insegnanti sia dei risultati ai test Invalsi), Adriana Di Liberto e Laura Casula (2016) mostrano che i docenti tendono a discriminare gli studenti maschi. Anche se lo studio non riesce a distinguere il comportamento di insegnanti di genere diverso, data la forte femminilizzazione del nostro sistema di istruzione, è facile che i risultati dipendano (anche se non esclusivamente) dal comportamento delle docenti donna. Una minore femminilizzazione dell’insegnamento può essere dunque un buon segnale non solo per le pari opportunità delle donne nel mercato del lavoro, ma anche per offrire uguali opportunità di apprendimento a studenti maschi e femmine.

Cultura

Commenti

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PB 28/03/2017 alle 13:56 Rispondi

Bell'articolo, problema serio, da affrontare senza ideologismi, come fa l'articolo. Solo un appunto: affermare che distinguere il condizionamento sociale dai gusti e dalle scelte degli/delle individui è un esercizio difficile, non implica che si debba rinunciare a considerare la rilevanza delle preferenze individuali nel produrre gli esiti di disparita' che commentiamo. Aggirare la difficolta' di misurazione aderendo, piu' o meno implicitamente, a politiche di "quote" (in universita' come in politica o nelle istituzioni) - di fatto indipendenti da considerazioni di merito e competenze - forse non e' la soluzione. Anche perché e' tutto da dimostrare che tali politiche di "quote" non producano effetti perversi, ad es. di maggiore diseguaglianza o di inefficienza. Il caso norvegese delle "quote rosa" nei CdA delle imprese lo dimostra: c'e' molta ricerca economica che ha valutato quella decisione di policy, trovandola problematica

 

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