George Orwell, Malinconiche utopie

Come nei “Viaggi di Gulliver”, “se togli la follia e la furfanteria, tutto quello che ti rimane, apparentemente, è una sorta di tiepida esistenza, che difficilmente vale la pena di vivere”

19 Agosto 2017 alle 19:49  da www.ilfoglio.it

Non è un discorso, ma l’andamento della prosa gli si avvicina. “Can socialists be happy?” fu pubblicato per la prima volta su Tribune il 24 dicembre 1943. Il lungo articolo era firmato John Freeman, pseudonimo di George Orwell (a sua volta pseudonimo del giornalista e scrittore che all’anagrafe faceva Eric Arthur Blair). La versione originale cui ha fatto riferimento per la traduzione Antonio Funiciello è contenuta nella raccolta di saggi di Orwell “All Art is Propaganda”, curata da George Packer per First Mariner Books, Boston-New York 2009.

Tribune, 24 dicembre 1943 - Pensare al Natale induce quasi automaticamente a pensare a Charles Dickens, e questo per due buone ragioni. Innanzitutto Dickens è uno dei pochi scrittori inglesi che si è davvero occupato del Natale. Il Natale è la festività più popolare tra quelle inglesi e, tuttavia, intorno a questa ricorrenza si è prodotta sorprendentemente ben poca letteratura. Ci sono i canti di Natale, che hanno per lo più origine medievale; esiste un piccolo gruppo di poesie di Robert Bridges, T. S. Eliot e alcuni altri, e poi c’è Dickens e ben poco altro. In secondo luogo, Dickens è grandioso, in verità quasi unico tra gli scrittori moderni, a saper offrire al lettore un’immagine convincente della felicità.

Dickens si occupa con successo del tema del Natale per due volte: in un capitolo del “Circolo Pickwick” e in “Canto di Natale”. Quest’ultima storia fu letta a Lenin sul letto di morte e, secondo il racconto di sua moglie, Lenin trovò il “sentimentalismo borghese” del racconto assolutamente intollerabile. In un certo senso Lenin aveva ragione: ma se avesse goduto di migliore salute, forse avrebbe notato che la storia ha interessanti implicazioni sociologiche. Per cominciare, per quanto Dickens possa calcare le tinte del suo racconto, per quanto nauseante possa essere il pathos di Tiny Tim, la famiglia Cratchit dà decisamente l’impressione di godersela. Appaiono felici, per esempio, nel modo in cui i cittadini di “Notizie da nessun luogo” di William Morris non lo appaiono affatto. Inoltre, e capire ciò è uno dei segreti della sua forza narrativa, la felicità deriva principalmente da un effetto di contrasto. I Cratchit sono così straordinariamente felici perché per una volta hanno abbastanza da mangiare. Il lupo è alla porta, ma scodinzola. L’odore del pudding natalizio filtra attraverso i banchi dei pegni e il lavoro pesante e sottopagato, e in un doppio senso il fantasma di Scrooge sta in piedi vicino al tavolo dove si consuma la cena. Bob Cratchit vuole addirittura bere alla salute di Scrooge, cosa che giustamente la signora Cratchit rifiuta di fare. I Cratchit riescono a godersi il Natale precisamente perché viene una sola volta l’anno. La loro felicità è convincente proprio perché viene presentata come incompleta.

Tutti gli sforzi per descrivere una felicità duratura sono stati, d’altronde, dei fallimenti. Le Utopie (causalmente la parola Utopia non significa “un bel posto”, ma semplicemente un “posto che non esiste”) hanno fatto spesso capolino nella letteratura degli ultimi tre, quattrocento anni, ma le Utopie per così dire “positive” sono invariabilmente poco appetibili, e di solito mancano anche di vitalità.

Le Utopie moderne che sono di gran lunga più conosciute sono quelle di H. G. Wells. La visione di Wells del futuro è quasi completamente espressa in due libri scritti nei primi anni Trenta, “Il sogno” e “Uomini come Dei”. In questi due libri traspare come Wells vorrebbe vedere il mondo o come pensa che gli piacerebbe vederlo. E’ un mondo le cui idee chiave sono l’edonismo illuminato e la curiosità scientifica. Tutti i mali e le miserie di cui noi oggi soffriamo sono svaniti. Ignoranza, guerra, povertà, calunnia, malattia, frustrazione, fame, paura, sfruttamento del lavoro, superstizione: tutto svanito. Così definito, è impossibile negare che questo sia il tipo di mondo cui tutti aneliamo. Tutti noi vogliamo abolire ciò che Wells vuole abolire. Ma c’è davvero qualcuno che vorrebbe vivere in una Utopia wellsiana?

Al contrario, non vivere in un mondo come quello, non svegliarsi nel giardino igienico di un sobborgo infestato da precettrici ignude, è diventato di fatto una consapevole motivazione politica. Un libro come “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley è l’espressione della odierna paura che prende l’uomo moderno a seguito della razionalizzazione di quella società edonistica creata da lui stesso. Uno scrittore cattolico ha di recente sostenuto che giacché oggi le Utopie sono tecnicamente realizzabili, è divenuto, di conseguenza, un problema serio come evitare che le Utopie si realizzino. Non è una considerazione banale. Una delle motivazioni originarie del fascismo è, d’altronde, il desiderio di evitare un mondo troppo razionale e troppo confortevole.

Così come tutte le Utopie "positive" si somigliano nel postulare la perfezione, esse sono tutte allo stesso modo incapaci di suggerire la felicità. “Notizie da nessun luogo” è una versione buonista dell’Utopia di Wells. In questo romanzo di Morris tutti sono gentili e ragionevoli, ogni cosa appare foderata dalla Libertà, ma l’impressione che si lascia dietro è una specie di stagnante melanconia. Il recente sforzo nella stessa direzione di Lord Samuel, con “Un paese sconosciuto”, è persino più penoso. Gli abitanti di Bensalem (il nome della città è preso in prestito da Francesco Bacone) danno l’impressione di guardare alla vita come un male necessario da affrontare senza fare capricci. Tutto quello che la loro saggezza gli ha portato è di essere permanentemente giù di corda. Ancor più impressionante è che Jonathan Swift, uno dei più grandi scrittori di fantasia che siano mai esistiti, non abbia avuto più successo di altri nella costruzione di una Utopia "positiva".

Le parti iniziali dei “Viaggi di Gulliver” rappresentano probabilmente il più feroce attacco alla società umana che sia mai stato scritto. Ogni parola di quei primi capitoli di “Gulliver” è oggi rilevante; in alcuni di essi si trovano delle profezie dettagliate degli orrori politici del nostro tempo. Dove Swift fallisce, però, è nel tentativo di descrivere una razza di esseri che suscitino la sua ammirazione. Nell’ultima parte del romanzo, in contrasto con i ripugnanti Yahoo, ci vengono mostrati i nobili Houyhnhnm, cavalli intelligenti privi dei difetti umani. Tuttavia questi cavalli, proprio in virtù della loro indole elevata e del loro affidabile buon senso, sono creature singolarmente uggiose. Come gli abitanti delle altre svariate Utopie, la loro preoccupazione primaria è quella di evitare il turbamento. Vivono vite quiete, vite “ragionevoli”, vite in cui non accade mai niente, vite libere non solo da litigi, disordine o insicurezza di qualsiasi tipo, ma anche dalla “passione”, compreso l’amore fisico. Scelgono i loro partner seguendo principi eugenetici, evitano eccessi sentimentali, e appaiono in qualche modo compiaciuti di morire quando arriva il loro momento. Nelle prime parti del libro, Swift ha mostrato a cosa conduce l’umana follia e la furfanteria: ma se togli la follia e la furfanteria, tutto quello che ti rimane, apparentemente, è una sorta di tiepida esistenza, che difficilmente vale la pena di vivere.

Altri tentativi di descrivere una felicità che fa chiaramente riferimento a un altro mondo non hanno più avuto successo. Il Paradiso è un grande fallimento come Utopia, laddove l’Inferno occupa un posto rispettabile in letteratura, e spesso è stato descritto in modo più minuzioso e convincente. E’ un luogo comune che il Paradiso cristiano, come viene di solito raffigurato, non attragga nessuno. Quasi tutti gli scrittori cristiani che hanno avuto a che fare col Paradiso, o ammettono francamente che è indescrivibile, o evocano un’indistinta immagine dorata, pietre preziose e canti senza fine di inni celesti. Ciò, invero, ha ispirato alcune delle più belle poesie del mondo, come “La nuova Gerusalemme” di uno scrittore anonimo degli inizi del XVII secolo:

Thy walls are of chalcedony,

Thy bulwarks diamonds square,

Thy gates are of right orient pearl

Exceeding rich and rare!

Oppure “Holy, holy, holy” di Reginald Heber:

Holy, holy, holy, al the saints adore Thee,

Casting down their golden crowns about the glassy sea,

Cherubim and seraphim falling down before Thee,

That wast, and art, and evermore shalt be!

Ma ciò che non si è riusciti a descrivere è la condizione nella quale l’uomo comune vorrebbe ardentemente trovarsi. Revivalisti e gesuiti (ricordate il terrificante sermone nel “Ritratto dell’artista da giovane” di Joyce?) hanno spaventato a morte le loro congregazioni descrivendo le immagini dell’Inferno. Ma non appena si torna a parlare del Paradiso, si ricasca immediatamente su parole come "estasi" e "benedizione", con poca voglia di spiegare in cosa esse realmente consistano. Forse lo scrittore più efficace sul tema è Tertulliano, il quale in un suo passo famoso spiega che una delle più grandi gioie del Cielo è osservare le torture dei dannati.

Le varie versioni pagane del Paradiso sono forse poco migliori. Si ha sempre una specie di sensazione da crepuscolo di Campi Elisi. L’Olimpo, dove vivono gli dei, con il loro nettare e con l’ambrosia, e le loro ninfe e la dea Ebe, le “immortali puttanelle” come le chiamava David Herbert Lawrence, potrebbe essere un po’ più familiare del Paradiso cristiano, ma non ci si vorrebbe comunque trascorrere molto tempo. Per quanto riguarda poi il Paradiso musulmano poi, con le sue 77 vergini per ogni uomo, tutte e 77 presumibilmente schiamazzanti nello stesso momento alla ricerca dell’attenzione dello stesso uomo, beh, questo è semplicemente un incubo. E nemmeno gli spiritualisti, sebbene costantemente ci assicurino che “tutto è luminoso e bellissimo”, sono capaci di descrivere una qualsiasi attività extraterrena che una qualsiasi persona raziocinante possa definire sopportabile (figuriamoci attraente).

La stessa cosa vale per i tentativi di descrizione di felicità perfette che non sono né utopistiche né ultraterrene, ma semplicemente sensuali. Danno sempre un’impressione di vuoto o di volgarità, o entrambe le cose insieme. All’inizio de “La Pulzella d’Orléans”, Voltaire descrive la vita di Carlo IX con la sua amante, Agnes Sorel. Erano “sempre felici”, racconta. E in cosa consisteva la loro felicità? Un carosello continuo di feste, sbronze, battute di caccia e sesso. Chi non si annoierebbe a morte di un tale andazzo dopo poche settimane? Rabelais descrive quegli spiriti fortunati che si divertono nell’aldilà per consolarsi di essersi annoiati nell’aldiquà. Cantano una canzoncina che potrebbe essere più o meno tradotta così: “Saltare, danzare, fare scherzetti, bere vino rosso e bianco e non far niente tutto il giorno a parte contare le corone dorate”, non c’è niente di più noioso dopotutto! La vacuità della nozione di un tempo infinito di “divertimento” è ben mostrata dal quadro di Bruegel “Il paese della cuccagna”, dove tre grassoni giacciono in terra addormentati, le teste accostate, con uova sode e cosciotti arrostiti che spuntano da ogni lato per essere divorati a loro piacere.

Sembra quasi che gli essere umani non siano capaci di descrivere, o forse neppure di immaginare la felicità, se non in termini di contrasto. E’ per questo che il concetto di Paradiso o Utopia varia di epoca in epoca. Nella società pre-industriale, il Paradiso era descritto come un luogo di riposo senza fine, con strade lastricate d’oro, perché l’esperienza quotidiana dell’uomo medio era quella del lavoro pesante e sottopagato e della povertà. Le vergini del Paradiso musulmano riflettono una società poligama nella quale la maggior parte delle donne scompare nell’harem degli uomini ricchi. Ma queste immagini di “beatitudine eterna” immancabilmente smettono di funzionare quando, per contrasto, la beatitudine diviene effettivamente eterna (essendo il pensiero dell’eternità percepito come un tempo senza fine).

Alcune delle convinzioni racchiuse nella nostra letteratura nascevano a suo tempo da condizioni fisiche che adesso hanno cessato di esistere. Il culto della primavera ne è un esempio. Nel Medioevo non significava principalmente rondini e fiori. Ma piuttosto verdura, latte e carne fresca dopo mesi in cui si viveva mangiando maiale sotto sale in capanne piene di fumo e senza finestre. Le canzoni primaverili erano allegre (“Non fare niente, ma mangia e grida evviva / e ringrazia il Cielo per l’anno felice / quando la carne costa poco e le ragazze sono amabili, / ragazzi vigorosi girovagano così allegramente di qua e di là / e perfino tra loro sono così allegri!”) perché c’era qualcosa per cui essere effettivamente allegri. L’inverno era terminato: questo era il grande evento. Natale stesso, una festività pre-cristiana, iniziò probabilmente perché doveva esserci un’occasione straordinaria per mangiare e bere tanto che rappresentasse una pausa nel lungo intollerabile inverno nordico.

L’incapacità dell’umanità di immaginarsi la felicità, se non nella forma di conforto dallo sforzo o dal dolore, presenta ai socialisti un problema serio. Dickens può descrivere una famiglia colpita dalla povertà che si lancia su un’anatra arrostita, e li può fare apparire felici; d’altra parte gli abitanti di un mondo perfetto non sembrano avere alcuna naturale allegria, anzi appaiono, in certo senso, ripugnanti. Certo noi non aspiriamo a vivere nel mondo che ci descrive Dickens e, probabilmente, non aspiriamo neppure a vivere in qualsiasi altro tipo di mondo che lui era capace di immaginare. L’obiettivo del socialismo non è una società in cui ogni cosa alla fine va al suo posto perché i vecchi gentiluomini regalano tacchini. A che cosa aspiriamo se non a una società in cui la “carità” non sia necessaria? Vogliamo un mondo in cui Scrooge, con i suoi dividendi, e Tiny Tim, con la sua gamba tubercolotica, siano entrambi inimmaginabili. Ma questo significa che abbiamo come obiettivo un mondo utopico epurato da ogni sorte di dolore e di sforzo?

A rischio di dire qualcosa che l’editore del Tribune non approvi, suggerisco che l’obiettivo reale del socialismo non è la felicità. La felicità è stata fino ai giorni nostri un effetto collaterale e, per quel che ne sappiamo, è possibile che lo rimanga per sempre. L’obiettivo reale del socialismo è la fratellanza umana. Questo è per lo più quel che si crede, sebbene non sia di solito esplicitamente detto, o perlomeno detto a voce abbastanza alta. Gli uomini esauriscono la loro vita in battaglie politiche strazianti, o restano uccisi nelle guerre civili, o torturati nelle prigioni segrete della Gestapo, non per realizzare un paradiso illuminato al neon, con impianti di aria condizionata e riscaldamento centralizzato, ma perché vogliono un mondo in cui gli esseri umani si amino invece di imbrogliarsi e uccidersi tra loro. E vogliono subito un mondo siffatto. Dove loro effettivamente muovano partendo da lì, non è per niente certo, e il tentativo di immaginarselo nei dettagli confonde semplicemente la questione.

Il pensiero socialista ha a che fare con la predizione, ma solo in termini ampi. Spesso si deve mirare a obiettivi che si possono intravedere solo indistintamente. In questo momento, ad esempio, il mondo è in guerra e vuole la pace. Tuttavia il mondo non ha esperienza di pace, e non ne ha mai avuta, a meno che il Buon Selvaggio non sia esistito in passato. Il mondo vuole qualcosa della cui esistenza ha solo una vaga coscienza, ma che non può definire in maniera accurata. Questo Natale, migliaia di uomini moriranno e saranno feriti a morte tra le nevi della Russia, o annegheranno in acque gelide, o si faranno saltare in aria l’un l’altro sulle isole paludose del Pacifico; bambini senza tetto che raspano tra le macerie delle città tedesche in cerca di cibo. Cercare di fare in modo che tutto questo non si ripeta è un nobile obiettivo. Ma spiegare nel dettaglio cosa s’intenda per un mondo pacifico è una faccenda ben diversa, e provare a farlo conduce a quegli orrori così entusiasticamente raccontati da Gerald Heard nel suo romanzo “Dolore, sesso e tempo: un nuovo sguardo sull’evoluzione e sul futuro dell’uomo”.

Quasi tutti i creatori di utopie somigliano a un tizio che soffre di mal di denti, per il quale, quindi, la felicità consiste nel non avere mal di denti. Essi vogliono produrre una società perfetta attraverso il perdurare infinito di qualcosa che aveva assunto valore solo perché era durata per poco tempo. Più in generale ci sono certe linee guida lungo le quali l’umanità dovrebbe muoversi, la grandiosa strategia è messa a punto, ma dettagliare la profezia non è affar nostro. Chiunque tenti di immaginare la perfezione rivela semplicemente il suo stesso vuoto. Questo è il caso perfino di un grande scrittore come Jonathan Swift, che può scorticare un vescovo o un politico in modo estremamente minuzioso, ma che quando tenta di creare un superuomo, alla fine lascia semplicemente intendere che i ripugnanti Yahoo hanno in sé più possibilità di evolvere degli illuminati Houyhnhnm.

Traduzione di Antonio Funiciello

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