Rifare una classe dirigente 1

Il binomio tra democrazia ed economia di mercato funziona se la mobilità sociale è viva e lotta insieme a noi. Oggi c’è un ceto governante arcigno da rivoluzionare

di Antonio Funiciello Luglio 2018 da www.ilfoglio.it  

Il rapporto tra governati e governanti non fila mai liscio come vorrebbero i governanti. A ogni passaggio decisivo dell’evoluzione liberale del regime democratico tra Otto e Novecento, la grande maggioranza dei governati ha dato non pochi problemi alla piccola minoranza dei governanti. E’ accaduto e accade anche nei regimi politici non democratici o in quelli a democrazia non liberale. Esiste, insomma, una tensione storica irrisolta tra massa dei governati e minoranza organizzata (Mosca), o corpo specializzato (Weber), o avanguardia rivoluzionaria (Gramsci).

E’ come nell’Enrico VI di Shakespeare: se si vuol fare una rivoluzione non c’è che cominciarla uccidendo tutti gli avvocati

Oggi questa tensione si colora di sfumature nuove nella contestazione non solo del ceto politico, ma della classe dirigente nella sua più ampia e corretta definizione. La critica populista mette all’indice le trame delle multinazionali, le manovre dei banchieri d’affari, le pretese scientiste di medici e ricercatori, i cavilli, gli arzigogoli e i sofismi dei grandi avvocati. E’, a guardar bene, un segno di maturazione dei contestatori concepire le élite governanti come classi dirigenti tout court e non solo come politische klasse (ancora Weber). Un grande avvocato ha indubbiamente un peso specifico “dirigente” molto più elevato di un parlamentare medio. Così, come nell’ Enrico VI di Shakespeare, è ancor più vero oggi di ieri che se si vuol fare una rivoluzione non c’è che cominciarla uccidendo tutti gli avvocati: “ The first thing we do, let’s kill all the lawyers!”.

Scherzi e Shakespeare a parte, è interessante considerare come sia cambiata la critica alla classe dirigente a seguito della globalizzazione. La forza del mutamento globalista è tale da chiedere di esaminare con attenzione la nuova élite globale, a partire dai modi nuovi in cui si forma e in cui conserva la propria posizione dominante. Il distacco tra classe governante e masse governate fa, infatti, il suo esordio già nella fase della formazione scolastica e universitaria, per poi proseguire in quella postuniversitaria. E mai come oggi l’intergenerational earnings elasticity (che verifica quanto il reddito lavorativo di un figlio sia connesso a quello dei genitori) segnala l’arroccamento di un’élite chiusa in un fortino inespugnabile. Ma procediamo per gradi.

Classe dirigente e globalizzazione

La globalizzazione, si è detto molte volte e con varie ragioni, ha tirato fuori dalla povertà un numero di esseri umani che si aggira intorno al miliardo. Questo fenomeno si è registrato nelle società non occidentali, laddove in quelle occidentali la globalizzazione ha inversamente divaricato la forbice tra chi ha di più e chi ha di meno. Quando in passato, nel mondo occidentale, si è assistito a fenomeni così importanti di innalzamento della condizione economica di vaste fasce di popolazione, si sono anche determinate potenti modificazioni dei tessuti sociali, delle classi politiche e della coscienza civica delle nazioni. Le rivoluzioni industriali hanno alimentato emancipazione civica e riorganizzazione di sistemi politici per dare rappresentanza istituzionale all’emersione sociale di nuovi “gruppi” di individui.

Questi processi di cambiamento civico e sociale, economico e politico, non sono mai stati tranquilli. Hanno sempre recato con sé il conflitto. L’espansione dello spazio pubblico prodotto da tali processi ha accolto contese tenaci. Dalla composizione di queste contese è emersa la democrazia liberale della seconda metà del Novecento, che ha ampliato le libertà civili e il benessere economico-sociale come mai era accaduto prima. Una delle principali conseguenze è stata il rimescolamento e l’allargamento della classe dirigente intesa nel suo complesso.

 

Nell’epoca d’oro dell’occidente (che coincide in particolare con gli anni 50 e 60 del secolo scorso) lo spazio della classe dirigente è stato molto accogliente per chi, provenendo dal basso e con la forza del proprio talento, ha potuto perseguire il proprio progetto di vita e di ricerca della felicità. Si è così determinato un continuo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata. Esattamente quello che non accade oggi, in un’epoca che divide in comparti stagni i ceti sociali. Non soltanto il gap tra chi ha di più e chi ha di meno si è allargato come non mai, ma si è esacerbato il contrasto tra una classe dirigente globalista e cosmopolita sempre più chiusa nel proprio egoismo di classe, e le masse governate che, con ragione storica, faticano a vedere migliorate le proprie condizioni di vita.

Oggi il compito principale della classe o minoranza dirigente è aprire se stessa, sin dai percorsi formativi, alla maggioranza governata

Diversamente, i paesi non occidentali, a seguito dell’innalzamento complessivo delle condizioni di vita del già ricordato miliardo di persone uscito dalla povertà, hanno governato con ordine gli effetti di tale innalzamento. La loro configurazione di nazioni a regime democratico non liberale, o a regime totalitario, ha temperato le spinte dei fuoriusciti dalla povertà. Qua e là ha accettato di allargare lo spazio delle élite nazionali, accogliendo nuovi aspiranti membri della classe dirigente, ma non ha permesso a chi spingeva per entrare di mettere in discussione l’ordine costituito.

I regimi illiberali o totalitari sono riusciti in questo intento proprio perché tali: illiberali e/o totalitari. I naturali rivolgimenti all’interno delle loro classi dirigenti (ma qui “naturali” tradisce il punto di vista occidentale di chi scrive) sono stati, all’occorrenza anche brutalmente, normalizzati. Nei regimi illiberali e/o totalitari, le élite dirigenti preesistenti all’azione antipauperistica della globalizzazione hanno difeso il proprio perimetro di ceto dominante. Hanno cooptato chi volevano cooptare (e secondo modalità da loro definite) e hanno sedato, con gli strumenti della coercizione politica di stato, le inquietudini che pure si erano agitate. Un esogeno alleato hanno trovato nel tracollo attrattivo del soft power delle società occidentali, entro le quali la globalizzazione andava riducendo le opportunità e aumentando la povertà.

In sintesi. Nei paesi a democrazia illiberale o nelle nazioni a regime totalitaria, le classi dirigenti hanno accolto tra le proprie fila chi volevano, tenendo buoni i tanti che avevano aspirazioni in tal senso con il mero appagamento derivante dalle maggiori possibilità consumistiche. Lo hanno fatto con gli strumenti iper-dirigisti propri di quei regimi politici e forti della crisi del soft power occidentale. All’opposto, nelle democrazie occidentali la ferale staticità sociale ha prodotto un incattivimento e una chiusura della classe dirigente: oggi lo scambio tra minoranza governante e maggioranza governata è così basso da lasciarsi leggere come inesistente se misurato su larga scala. Un gran bel pasticcio se si tiene conto del fatto (storico) che l’occidente è cresciuto complessivamente di più quando questo scambio è stato molto più intenso.

La presunzione intellettuale dell’élite

Da questo punto di vista, assume nuovo significato la diffidenza delle masse governate verso la presunzione intellettuale delle minoranze governanti. Intendiamoci. La critica contro la competenza dell’élite dirigente (tornata oggi di moda grazie a Tom Nichols) è antica quanto la critica alla democrazia. Platone, nella Repubblica, vedeva nell’antintellettualismo della democrazia il suo peccato mortale. La prospettiva che i governanti si facessero filosofi, e i filosofi governanti, non era altro che la schietta affermazione della necessaria (per Platone) coincidenza tra potere e sapere. Un regime che non avesse previsto questa coincidenza, avrebbe sì superato i limiti demagogici della democrazia, ma non la diffidenza del tiranno Gerone verso la saggezza del poeta Simonide, descritta da Senofonte nel dialogo lungamente chiosato da Leo Strauss e Alexandre Kojève.

Se quindi l’antintellettualismo delle maggioranze governate verso le minoranze governanti è antico quanto la civiltà occidentale stessa, oggi che la mobilità sociale è bassa in Germania, molto bassa in Francia, praticamente inesistente in Usa, nel Regno Unito e in Italia, quell’antintellettualismo acquisisce significati molto interessanti. Significati che ne spiegano l’estremismo verbale (non le sempre deprecabili volgarità ed efferatezza), ma soprattutto la fondatezza storica. Ancor più se alla rivolta contro l’intellettualismo delle masse governate, le minoranze governanti rispondono opponendo con arroganza la propria superiorità intellettuale. Dalla quale per giunta fanno discendere la propria superiorità morale!

( 1segue)

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