Addio alla politica

L’illuminismo è morto e la sinistra non si sente tanto bene. Note sulle parole di un poeta “comunista decadente”

di Alfonso Berardinelli 16.6. 2019    www.ilfoglio.it              

Dite voi se devo scusarmi, perché questo articolo è quasi un’autorecensione. Dico quasi. Non parlerò infatti di me stesso, ma di un testo apparso nel terzo numero di una rivista, L’età del ferro, ideata e fondata dal mio amico Giorgio Manacorda che di fatto la dirige, benché nella direzione goda dell’attiva e confortante compagnia di Walter Siti (molto attiva) e mia (solo confortante).

Parlo di questo editoriale di Manacorda perché la recente esperienza elettorale europea ha provocato uno stato di desolazione e di prostrazione in molti elettori non solo di sinistra. Manacorda non ha avuto bisogno di leggere le percentuali delle elezioni per scrivere quello che ha scritto nel numero dell’Età del ferro uscito tre mesi fa. Volendo provare a “pensare la politica”, il titolo che scelse fu questo: “Un lungo addio”. Niente di più appropriato e attuale. Ma per non essere solenne e per svolgere le sue riflessioni liberamente, lasciando loro il sapore di un monologo rapsodico anche se coerentissimo, apre con questa frase: “Lo so, non sta bene, non si fa, non è buona educazione cominciare un articolo, un saggio, con la propria autobiografia”. Ma in questo caso l’autobiografia è generazionale e intellettuale, punta direttamente al nocciolo della questione, in cui è racchiusa un’idea di politica nata, e non è poco, intorno alla metà del Settecento.

Con questa mossa iniziale, il discorso viene subito spostato al di qua e al di là dei codici, della lingua con cui politologi e commentatori parlano comunemente di politica. Avendo fatto politica, anche se non ai vertici, dall’adolescenza all’età matura, ora Manacorda non parla da politico perché sa bene che cosa è un politico; e non parla ai politici, perché sa che temono la dimensione intellettuale come un morbo invalidante. Il suo discorso riguarda i presupposti culturali, le idee, le persuasioni, le mitologie, le emozioni e immaginazioni che hanno mosso l’agire politico della generazione cresciuta negli anni Sessanta, fra un Partito comunista italiano che doveva la sua autorità a un sapiente equilibrismo fra democrazia da realizzare e rivoluzione da rimandare, e movimenti o gruppi nati a sinistra di quel partito criticandone l’incoerenza e la doppiezza.

  

Nonostante il tempo trascorso e le metamorfosi, gli aggiustamenti tattici e le mutazioni antropologiche, la cultura politica di quella generazione è ancora la radice che nutre i propositi e le delusioni di qualsiasi sinistra: che non riuscendo più né a dare forma e sostanza a un credibile partito politico, né a parlare a quegli strati della società in nome dei quali esistere e agire, non si spiega mai “che cosa è successo”.

Negli ultimi due secoli, che si trattasse di rivoluzionare la struttura sociale o di riformarla, le varie sinistre, benché in fiero conflitto fra loro, nascevano comunque, dice Manacorda, dalla razionalità illuministica. Nascevano da un pensiero, una logica, una dialettica da applicare ai fenomeni sociali, sia per interpretarli obiettivamente, sia per orientarli volontariamente verso una maggiore libertà, giustizia e uguaglianza. Scrive Manacorda: “Io sono stato allevato nel culto di due rivoluzioni, quella francese e quella bolscevica, ambedue smorzate dal fatto che ci trovavamo nella seconda metà del Novecento in Italia e il comunismo era ingentilito, reso piacevole e credibile dal fatto che alla rivoluzione non ci credeva più nessuno (tranne forse uno come Rudi Dutschke nel Sessantotto)”.

Detto in altri termini, sono stato allevato nel culto dell’illuminismo, visto, tra l’altro, che anche il comunismo nasce dalla pancia dell’illuminismo, il quale può essere declinato in termini rivoluzionari ma anche – e forse ancor di più – in termini ‘borghesi’ (come si diceva allora) ovvero liberali, valori che i comunisti italiani fecero propri riuscendo a tenerli insieme alla ‘rivoluzione’ in nome del comune illuminismo”.

Credo che il disintossicante distacco con cui Manacorda conduce il suo ragionamento sia dovuto non al suo passato politico, quanto piuttosto al suo passato e presente di poeta che ha sempre, parallelamente, scritto poesia e teorizzato sulla “poesia come forma della mente” e come costante antropologica.

L’incontro e il distacco fra poesia e politica era annunciato dal titolo del suo libro forse più noto, Comunista crepuscolare, uscito nel fatale 1989 con una prefazione di Pietro Ingrao, l’instancabile ispiratore della sinistra Pci. Scriveva Ingrao: “Basta inoltrarsi un poco in questo testo poetico per accorgersi che l’autoironia copre una condizione di sofferenza. La crisi (…) è una crisi politica”.

Ricordando ora di aver scritto allora un verso come “Io sono un comunista decadente”, Manacorda nota di aver confessato di essere un “ossimoro”, una figura retorica vivente della contraddizione che la politica non può tollerare e non smette di rimuovere. Il comunismo aveva sempre voluto essere razionale, sano, convinto, scientifico e progressivo. Come poeta, invece, Manacorda sapeva quello che politicamente i nostri comunisti di vario genere non riuscivano a sapere e ad ammettere: di non avere né fede né scienza, di essere stanchi e malati di contraddizione, malinconici e regressivi, per non dire ipocriti. Proprio in quanto poeta lui sapeva invece di essere amleticamente una versione tarda ed estrema del “principe stanco”, la figura shakespeariana analizzata da Erich Auerbach nel suo capolavoro Mimesis: nelle figure di principi stanchi si nota un ossimoro, cioè la situazione bifronte fra dovere di agire e svogliatezza ironica, volontà di decidere e percezione dell’assurdo.

E’ perciò con una specie di energia cartesiana disperatamente impaziente che il poeta Manacorda separa illuminismo e postmodernità, la tradizionale politica della mente e l’attuale politica del corpo e dell’immagine, una logica della non contraddizione e una logica della metafora. Nella sua solitudine di poeta, oggi Manacorda non può che ragionare in grande, cosa naturale e possibile solo quando si sente che intorno c’è il vuoto. Un vuoto doppio: il vuoto di una politica senza cultura e senza razionalità, e il vuoto di una cultura socialmente ineffettuale e politicamente impotente.

Oggi la politica non è più pensiero e perciò è impossibile pensarla in termini culturali. Avviene e fa avvenire qualcosa, ma questo qualcosa avviene fuori da ogni categoria teorico-politica. C’è da chiedersi: non era così anche prima? La razionalità illuminista o dialettica applicata alla società come uno strumento scientifico-politico non è stata un’illusione durata anche troppo? La fine dell’illuminismo in politica oggi è sotto gli occhi di tutti. E’ per questo che l’attuale sinistra non convince. Non solo non riesce a motivare razionalmente l’idea di cambiamenti radicali o utopici di lungo termine; non può neppure giustificare un riformismo socialdemocratico che non venga presto ingoiato dalla necessità europea e internazionale di adeguarsi alle regole, anzi agli imperativi semplici e brutali dei mercati. Che cosa c’è da pensare politicamente quando il differenziale fra titoli di stato italiani e tedeschi sale a 290? La democrazia come idea scritta nella Costituzione del 1947 e l’Europa scritta nel Manifesto di Ventotene del 1941 si volatizzano di fronte ai problemi del debito pubblico e alle compatibilità di bilancio. La stessa logica economica si è dissociata dalla vita sociale e dalla vita dei cittadini dei diversi stati nazionali: la sua globalità è ingovernabile. “Il laico nichilismo” dice Manacorda “non produce nessuna politica, produce solo mercato. Il paradosso è che produce anche il mercato della politica”. Per questo, i politici sono diventati e si comportano come pubblicitari. “La rivoluzione l’ha fatta la tecnica, e l’ha fatta da sola” conclude Manacorda. Cioè: l’ha fatta senza neppure pensarla. Non la scienza pura, ma la scienza-tecnica oggi è fuori dall’illuminismo, ultima e ormai defunta forma dell’umanesimo occidentale.

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