Bilancio enopandemico

Il futuro del mercato del vino nelle parole di produttori e distributori. E il racconto delle bottiglie più buone che ho assaggiato quest’anno, contro i cliché sul rapporto qualità prezzo e il temuto e-commerce

CAMILLO LANGONE 12.6. 2021 ilfoglio.it lettura6’

Io ho quel ho donato, diceva il Vate, io so quel che ho bevuto, dico io, e subito mi sembra di star parafrasando o sintetizzando un altro autore sommo, e in effetti tra gli appunti trovo questo Rabelais: “Nel vino è celata la verità. La Diva Bottiglia vi ci manda: siate voi stessi interpreti della vostra scoperta”. Se avete sprecato questi quindici mesi assurdi guardando la tv e commentando sui social, problemi vostri, io nel frattempo bevevo tantissime bottiglie e imparavo moltissimo e adesso quasi quasi ve le elenco e invece no, forse non ve le meritate e di sicuro sono troppe, devo scrivere 11.000 battute, non 110.000.

Facciamo che segnalo le mie bevute memorabili da marzo 2020 fino a oggi ma soprattutto interpello alcuni fra i migliori produttori e distributori sulle conseguenze della pandemia sul vino. Tanti problemi e alcune opportunità che in parte già conoscevo per il costante confronto con un personaggio espertissimo del mercato. E’ un uomo pratico, pacato, impermeabile ai facili entusiasmi. Merita di essere ascoltato con attenzione: “Il lockdown ha prodotto un leggero aumento della vendita nella grande distribuzione che ha riguardato prevalentemente i vini più economici e solo marginalmente quelli di fascia media. L’e-commerce è in forte aumento ma parliamo ancora di numeri molto piccoli, e le enoteche non brillano. In sintesi si sono salvati brik, bottiglioni, dame da 5 litri, bag in box e cioè i vini sotto i 2 euro al pubblico mentre i vini di maggior qualità hanno sofferto. Le aziende che da sempre presidiano la fascia bassa del mercato hanno sofferto meno di quelle più virtuose anche se ora ci sono buoni segnali di ripresa”.

 

Parto con i miei migliori vini bianchi.

Non sono il leggendario conte Riccardo Riccardi, secondo il quale “la prima qualità di un vino è di essere rosso”. E però di fronte a tanti bianchi troppo bianchi (troppo vuoti, insipidi) o troppo gialli se non addirittura arancioni (troppo macerati, ossidati) mi viene quasi da dargli ragione. I bianchi che ricordo con maggior piacere sono lo Zero Infinito (Pojer e Sandri, Faedo TN) e il Famoso di Fred (Randi, Fusignano RA). Il primo, figlio di varietà incrociate in Germania, mi ha insegnato che non tutti i vitigni alloctoni danno gli stessi pessimi risultati dello Chardonnay. Il secondo, un autoctono a dispetto del nome fra i più sconosciuti, mi ha ricordato che l’Italia ha la più grande enodiversità del pianeta, con oltre 800 vitigni indigeni. Mi accorgo di aver citato solo vini frizzanti e colmo la lacuna col Bombino di Valentina Passalacqua (Apricena FG) che ho appena bevuto a Bologna insieme al poeta Davide Rondoni, sotto il portico a fianco della cattedrale.

Stefano Berti è uno dei vignaioli di Romagna più svegli, forse il più sveglio in assoluto e pertanto il più necessario in una regione sul versante enologico piuttosto sonnolenta, produttore di Sangiovese in Ravaldino al Monte, frazione di Forlì, titolare di uno dei più brillanti profili Instagram del settore (solo 2.113 seguaci, a confermarmi il sospetto che nel Mondo Nuovo la qualità è un handicap). Riguardo i cambiamenti apportati dal virus cinese al vino italiano mi risponde così: “Tutte le cose che mi vengono in mente non credo cambieranno stabilmente il settore e alcune erano già nell’aria da prima. Fare a meno delle fiere del vino? Fare le degustazioni on line? Vendere on line? Avere dei siti internet aggiornati e coinvolgenti? Quando vuoi passa da qua che ci beviamo un Sangiovese frizzante”. Berti sa benissimo che dei suoi sei Sangiovese sei il mio preferito è l’insolito Rossetto, rifermentato in bottiglia, tappo a corona, da bersi ghiacciato quest’estate a Riccione per festeggiare il centenario del formidabile centro balneare (se il dettaglio del tappo a corona vi turba, se siete fissati col decrepito tappo di sughero, vuol dire che siete molto più vecchi di Riccione: mentalmente, dico).

Procedo con i miei migliori vini rosa.

Rischio di passare per prezzolato da Pojer e Sandri ma non posso tacere che Zero Infinito Cremisi è il vino che in questi quindici mesi più mi ha colpito. Quando Paolo Pongolini me l’ha stappato alla Fattoria di Parma sono rimasto a bocca aperta: vino o spremuta di arancia? Diciamo che racchiude il meglio di entrambi i liquidi, risultando una festa per gli occhi (colore strepitoso) e per il palato (ci senti le fragole, i lamponi, la melagrana…). Magicamente non ci senti l’alcol. Se mi piacessero i toni enfatici direi che è uno dei migliori vini della mia vita ma sono un moderato e mi limito a definirlo il vino più sorprendente di questi primi Anni Venti. E adesso i tre migliori vini fermi (il Cremisi è frizzante) della tipologia. Il miglior rosa che in etichetta si dichiara rosso è il Lezèr (Foradori, Mezzolombardo TN), Teroldego vernacolare che l’altra settimana a Trani ho bevuto ben freddo con una dozzina di ostriche. Il miglior rosa che in etichetta si dichiara cerasuolo è il Malandrino (Cataldi Madonna, Ofena AQ), coerentemente ciliegioso. Il miglior rosa che in etichetta si dichiara rosato è il Mezzarosa (Morella, Manduria TA), metà negramaro e metà primitivo, tappato coraggiosamente a vite.

Elena Ciurletti è fortissima sull’export come fa intuire la sua ragione sociale (Orion Wines) e introduce un’idea su cui non mi sembra si sia ancora riflettuto: “E’ cambiata la sensibilità al prezzo, si è scoperto quanto costi meno lo stesso vino acquistato on line anziché al ristorante. Dunque oggi si spende in media meno ma si beve meglio”. Ecco un vero risultato di quindici mesi di disintermediazione. Mentre Elisa Dilavanzo, la Regina del Moscato Fior d’Arancio, mi risponde dai fatati Colli Euganei invitando a non perdere il contatto con la realtà fisica: “Oggi è più normale acquistare vino in un’enoteca virtuale, o degustare con un cliente dall’altra parte del mondo senza prendere un aereo. Ma il vino resta condivisione, le parole di un produttore accendono emozioni solo tra i filari di un vigneto, o in cantina con l’assaggio di una vasca o di una botte”.

E’ da tempo che Nicola Di Lernia di Compravini mi tartassa affinché scriva, in qualità di enogastromo, sul sito di e-commerce della di lui famiglia. Io resisto, altrimenti il romanzo quando lo finisco, tuttavia lo interpello visto l’entusiasmo e la crescita di fatturato: “Internet ci ha dato una mano strepitosa, grandiosa. Le aziende produttrici hanno avuto inizialmente una battuta d’arresto ma chi come noi ha investito sull’e-commerce le ha aiutate a ricominciare a vendere. Sostenendo sia la campagna, i contadini, sia l’indotto: chi fa le etichette, chi fa i cartoni… C’è stato un cambiamento anche nei clienti, ora sono più attenti, più informati, sono spuntati un sacco di blog, sono aumentate le discussioni, le richieste di consigli…”.

I vini rossi frizzanti sono la mia specialità, vorrei citarne tantissimi ma devo limitarmi ai campioni di categoria: miglior Lambrusco Maestri, come sempre, quello di Camillo Donati (Felino PR), miglior Lambrusco Salamino, come mai ovvero una scoperta, il Per Franco di Terrevive (Carpi MO), miglior Gutturnio il Lusenti (Ziano Piacentino PC), certo avvantaggiatosi dall’essere stato bevuto insieme alla musa dell’arte Francesca Sacchi Tommasi… Migliore Freisa quella di Domenico Capello (La Montagnetta, Roatto AT). “Perché bere Barolo fermo se si può bere Freisa vivace?”, mi sono chiesto assaggiandolo. Coi Lambruschi di Sorbara, perdonatemi, non riesco a fare sintesi, devo assolutamente citare sia l’epocale Lambrusco del Fondatore (Cleto Chiarli, Castelvetro di Modena MO) sia il mirabile Radice (Paltrinieri, Sorbara MO) sia il dialettale Celeste (Angol d’Amig, Modena). Perché il Lambrusco è un mondo e il Sorbara un continente.

Angelo Gaja, che non devo certo presentare, è icastico: “Il virus ha picchiato sul mercato”. Sempre più vedremo una “crescita esponenziale delle cantine che con l’online arriveranno direttamente al consumatore. Anziché viaggiare come dei matti sui mercati esteri per promuovere il vino i produttori potranno farlo anche in Zoom seduti nei propri uffici. Perdita di efficacia della promozione attraverso i grandiosi eventi/fiere popolari del vino. Dilagherà lo storytelling, anche il più banale”.

Giovanni Gregoletto, produttore di alcuni bianchi veneti (il Verdiso sui lieviti, il Prosecco Tranquillo) dai livelli di qualità, peculiarità, territorialità stratosferici, è il vignaiolo più modesto del globo terravinicolo. Anziché promuovere sé stesso promuove gli amici: “Tutti dicono che la principale conseguenza della pandemia è l’online ma io continuo a preferire la conoscenza concreta, il rapporto diretto: se un vino di Pojer e Sandri lo bevi in cantina, insieme a Mario Pojer, ti dà più piacere”.

I miei migliori vini rossi fermi? Non sono precisamente il mio genere: ai produttori di vini fermi, che giustamente mi odieranno, dico sempre di darsi una mossa. Un vino può anche non muoversi nel bicchiere ma deve muoversi in bocca, raggiungere i sensori, mostrarsi dinamico e vitale. Sarà che è fermo ma non seduto, sarà che ho una memoria innanzitutto visiva (è una delle più belle etichette che conosca), sarà che la Calabria del vino non se la fila nessuno e perciò attira un cavatappi non conformista, il mio rosso fermo del biennio nero 2020-21 è il Cirò Etichetta Storica dell’azienda agricola Scala (Cirò Marina KR).

Mirco Mariotti dell’omonima azienda vitivinicola ferrarese, custode dei vini delle sabbie (non un modo di dire, alcune sue viti affondano radici nelle dune di Comacchio), insiste sulla disintermediazione (“Il consumatore contatta più spesso il produttore”) ed evidenzia come il digitale non significhi necessariamente freddezza: “Ho notato una maggiore disposizione a valutare gli aspetti umani del nostro lavoro”. Luca Sanjust, barone di Teulada e dominus di Petrolo (Mercatale Valdarno AR), mi risponde con un po’ di ritardo perché stava partecipando a un torneo di golf. Sport che gli rinfaccio ma poi lo perdono per via del suo Sangiovese in anfora, il Bòggina A che mi ricorda Orazio: “O anfora benigna / … / tu soavemente pungoli l’ingegno / spesso torpido”. Riguardo la mutazione enologica indotta dal virus, secondo Sanjust consiste innanzitutto nella diversa modalità di degustazione: “Ora si spediscono i vini e poi si fanno riunioni via Zoom e penso che questa abitudine rimarrà anche post-Covid. Cioè si viaggerà molto meno anche perché prima si girava troppo e un po’ a vuoto. Ci sarà meno presenzialismo e non ti saprei dire se ciò sarà meglio o peggio: sarà diverso!”.

Finisco la carrellata enopandemica coi miei migliori vini dolci.

In tale schiera primeggiano ovviamente i molteplici moscati di Maeli (Baone PD), l’azienda della succitata Elisa Dilavanzo, ma voglio concludere con un raro passito rosso. Dovete sapere che nel Parmense oltre ad ottimi Lambruschi secchissimi abbiamo un’ottima Bonarda dolcissima: si chiama Vino del campo (Lamoretti, Langhirano PR). Anche per me, che presumo di conoscere il territorio palmo a palmo, è una scoperta recente, di questi mesi ultimi. Durante i quali ho imparato tantissimo e bevuto troppo.

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