SI PUO’ ESPORTARE LA DEMOCRAZIA? SI’, MA NON OVUNQUE –

IL POLITOLOGO GIOVANNI SARTORI, SCOMPARSO NEL 2017, AVEVA CAPITO PERCHÉ LE MISSIONI USA NEL MONDO RISCHIANO IL FLOP:

21.8.2021 dagospia.com lettura4’

“L’ACCOGLIMENTO DELLA DEMOCRAZIA SI PUÒ IMBATTERE NELL'OSTACOLO DELL'ISLAM CHE È RIGIDO - PIÙ L'OCCIDENTE LAICO RITIENE DI “LIBERARE” L'ISLAM COSTRINGENDOLO ALLA DEMOCRAZIA, PIÙ L'ISLAM RITIENE DI LIBERARE LA FEDE DALLE INCROSTAZIONI OCCIDENTALI - GLI AMERICANI CHE SI ASPETTAVANO DI ESSERE ACCOLTI IN IRAQ (O IN AFGHANISTAN) COME LIBERATORI, COME IN EUROPA NEL 1944-45, NON AVEVANO CAPITO NULLA…”

La crisi afghana solleva il problema della democrazia e del ruolo dell’Occidente, ecco una sintesi da tre scritti di Sartori sul tema

Testo di Giovanni Sartori pubblicato dal “Corriere della sera”

La democrazia - e più esattamente la liberal-democrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La «democrazia degli altri» (per usare la formula di Amartya Sen) non c'è e non è mai esistita. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l'imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è cosi, è così. E allora torniamo al punto: la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre.

E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile. In questa ottica il concetto di liberal-democrazia deve essere scomposto nei due elementi - liberale e democratico - che lo compongono. La componente liberale è «liberante»: libera il demos dalla oppressione, dalla servitù, dal dispotismo. La componente democratica è, invece, «potenziante», nel senso che potenzia il demos.

Quello che qui ci interessa è che la prima componente (quella liberante) è la condizione necessaria sine qua non della liberal-democrazia, e alla stessa stregua ne è logicamente l'elemento definiente (che la definisce), mentre la componente democratica ne è l'elemento variabile, che ci può essere ma anche non essere. Ciò precisato, torniamo quindi alla esportabilità. Se la demoprotezione (cioè, la componente liberale) è l'elemento necessario-minimo della liberal-democrazia, ne consegue che ne dovrebbe essere anche l'elemento universale, o comunque più universalizzabile, più facile da esportare.

Questa esportazione può avvenire per contagio, e quindi in modo endogeno, oppure può risultare da una sconfitta militare ed essere un trapianto imposto con la forza. Gli esempi più citati di democrazia costituzionale imposta con successo dalle armi e da una occupazione militare sono, a seguito della seconda guerra mondiale, Giappone, Germania e Italia. Ma questo è un assemblaggio statistico stupido (che si inserisce in assemblaggi di 20-30 casi ancora più stupidi), nel quale soltanto il Giappone è un caso significativo in forza della sua netta eterogeneità culturale.

E qui la lunga occupazione militare americana è stata senza dubbio determinante. Ma il caso del Giappone dimostra più e meglio di ogni altro che la democrazia non è necessariamente vincolata al sistema di credenze e valori della civiltà occidentale. I giapponesi restano culturalmente giapponesi ma apprezzano, allo stesso tempo, il metodo di governo occidentale. Tuttavia, il caso di esportazione più significativo è quello dell'India, che ha assorbito dalla lunga presenza e dominazione degli inglesi le regole del costituzionalismo britannico e le ha poi mantenute e fatte proprie.

Ma l'ostacolo religioso era, in India, più serio e più complesso che in Giappone, per la coesistenza di tre grandi religioni, nell'ordine: induismo, buddismo e islamismo. Qui importa sottolineare che per l'India, come per il Giappone, una eterogeneità culturale non impedisce l'adozione di una democrazia occidentale. La religione non è un ostacolo se e quando può accettare la laicità della politica.

Il che spiega come mai l'India sia una democrazia «importata» che peraltro lascia gli indiani come sono, e cioè culturalmente indiani. Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell'ostacolo delle religioni monoteistiche. Un ostacolo che oggi riguarda soprattutto e prima di tutto l'Islam.

Perché? Rispondo così: a differenza della risposta all'assalto culturale occidentale dell'India, del Giappone e ormai della Cina, l'Islam a livello di massa è rigido, sclerotizzato, e cioè manca di flessibilità, adattabilità e capacità di risposte creative. Ne consegue che, più l'Occidente laico si ritiene in dovere di «liberare» l'Islam costringendolo alla democrazia, più l'Islam teocratico si ritiene in dovere di liberare la propria fede dalle incrostazioni occidentali e di contrattaccare islamizzando l'Occidente.

A fronte di questa situazione, gli americani che si aspettavano di essere accolti in Iraq (o in Afghanistan) come liberatori, come erano stati accolti in Europa nel 1944-45, non avevano capito nulla dei problemi nei quali si stavano cacciando. In merito all'Iraq, probabilmente Bush credeva davvero che Saddam Hussein fabbricasse armi nucleari; ma in ogni caso credeva che la sua guerra avrebbe instaurato una democrazia a Bagdad. Poverino, l'intelligenza non è mai stata il suo forte.

Lo stesso discorso vale per l'Afghanistan, dove il problema non era di trasformare un millenario sistema tribale in uno Stato democratico, ma di impedire che diventasse, o ridiventasse, uno «Stato canaglia» nel quale il terrorismo islamico possa liberamente produrre micidiali armi chimiche e batteriologiche. A conti fatti, a me pare che gli americani, e con loro gli occidentali, abbiano sbagliato i conti.

(Con tagli e aggiustamenti, curati dal professor Marco Valbruzzi, dagli scritti: G. Sartori (2007), Democrazia. Cosa è , Milano, Rizzoli; G. Sartori (2015), La corsa verso il nulla. Dieci lezioni sulla nostra società in pericolo , Milano, Mondadori; G. Sartori, Illusioni e delusioni , in «Corriere della sera», 31 gennaio 2011).

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