Cacciatori di teste per musei. A Palmyra
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La nomina di forestieri alla guida degli Uffizi sconvolge le nostre combriccole culturali gnè-gnè. E’ difficile immaginarsi una reazione alla decapitazione islamista del custode siriano Asaad. La crociata necessaria
di Giuliano Ferrara | 19 Agosto 2015 ore 19:27 Foglio
Martedì le notizie erano due. Molti illustri manager dei beni artistici, di nazionalità non italiana, sono stati nominati a capo di alcuni dei nostri maggiori musei, con procedure concorsuali che consentirebbero in qualunque momento ai nostri bravissimi esperti nella materia di assumere posti di comando in simili istituzioni nel mondo occidentale. Si è prodotto un gran chiasso. Vediamo che tipo di reazioni produrrà l’altra notizia di martedì. Il capo degli insediamenti archeologici della millenaria città carovaniera di Palmyra, Khaled Asaad, un uomo di ottantadue anni che ne ha passati cinquanta come custode delle preziose rovine, è stato decapitato e poi impiccato al palo di un semaforo, mettendo ai piedi del penduto, come in una parodia dei Tarocchi, la sua testa. Asaad era un serio e pacifico studioso, che aveva lavorato con le maggiori missioni archeologiche americane, svizzere, francesi e tedesche. Si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, quando lo Stato islamico si è impossessato manu militari di Palmyra nell’indifferenza del mondo. E’ stato fatto prigioniero, interrogato per alcune settimane, probabilmente torturato allo scopo di accertare dove fossero stati riposti alcuni dei reperti sottratti alla furia devastatrice del Califfato in armi.
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Che uso fare delle nomine alla testa degli Uffizi e altro lo sappiamo, un uso piccolo politico e di combriccola culturale, sì, no, forse, chissà, ma, però, gnè-gnè (basta leggere il commento di Salvatore Settis su Repubblica). Per sapere che uso fare della decapitazione di Asaad bisogna ricostruire quel che sta succedendo. Prima hanno preso le rovine di Nimrod e di Ninive e hanno trasformato in rovine di esodo, disperazione, schiavitù e morte le comunità preislamiche che abitavano da quelle parti da duemila anni e più, cristiani e yesidi e altri. Poi hanno preso Palmyra e acchiappato il suo custode archeologico. Il valore simbolico della vita umana perseguitata è fortemente decaduto qui da noi. Come nota l’Economist, migliaia di giovani occidentali si sono arruolati in questi mesi nello Stato califfale, attratti proprio dalla sua capacità di infierire sugli infedeli, di dare un segno di vita nella forma del timbro di morte. In generale, nonostante i colpi subiti dalle guerre chirurgiche e anestetizzate dell’èra Obama, il numero complessivo dei jihadisti è cresciuto. La forza dello Stato islamico è nella sua impunità, nei suoi successi territoriali e militari, nella trasformazione del terrorismo in utopia religiosa che si realizza come guerra santa abolendo i vecchi confini coloniali e costruendo un’identità statuale transnazionale. La propaganda è la chiave della politica del nuovo jihadismo, e il simbolo rilanciato con attenzione e cura funesta nei media occidentali è il suo strumento maggiore.
Quando scrivemmo, a maggio, allorché si era ancora in tempo, che era il momento di bandire una crociata per Palmyra, visto che della difesa delle vite dei perseguitati fa parte anche la riconquista dei tesori storici preislamici che quelle vite e quelle storie legittimano e glorificano, qualche Burlone Collettivo disse che mettevamo i ruderi al posto della gente nella scala delle priorità. Palmyra nelle mani del Califfo era invece un simbolo universalmente parlante, un tesoro sulla via della seta da recuperare in fretta e con tutta la durezza necessaria, pena nuove avanzate jihadiste nella devastazione simbolica della nostra identità. Eccoci, con il Tarocco di Palmyra, alla dimostrazione.
Ora mettiamoci d’accordo sui bandi di concorso, le commissioni, il ruolo di sovrintendenti e prefetti, la differenza tra curatori e manager e la nazionalità percepita degli occidentali che vanno alla guida dei nostri musei; poi vendichiamo il custode siriano, il vecchio di Palmyra, e spazziamo via coloro che lo hanno penduto, esercitando una violenza incomparabilmente maggiore di quella da loro impiegata. Capiscono solo questo linguaggio, che in questa epoca storica ci vede muti. Sempre per citare l’Economist a proposito della “propaganda war”, “nulla sarebbe così devastante per annullare la loro guerra di propaganda come una dura sconfitta militare”.