Che tipo era Glucksmann, intellettuale éclairé coraggioso e fuori squadra rispetto al suo tempo

Il filosofo aveva sostenuto la guerra di Bush in Iraq e si batté per l’intervento occidentale in Bosnia. Sempre controcorrente

di Giuliano Ferrara | 10 Novembre 2015 ore 19:00 Foglio

Nel 1977 in Italia ce la tiravamo con gli indiani metropolitani e Toni Negri, si preparava il caso Moro. In Francia da due anni era uscito un pamphlet scandaloso, antitotalitario e perciò anticomunista di un ex maoista e studioso con Althusser e Lacan, André Glucksmann (1937-2015). I nouveaux philosophes sollevarono il caso Soljenitsin, il ritrattista dell’universo concentrazionario sotto la dittatura del partito unico, e celebrarono uno scrittore reazionario, antistalinista e anticomunista che nel 1974 era partito, espulso dall’Unione sovietica, per un esilio americano di vent’anni tra le nevi del Vermont. La filosofia di Sartre, guru della gauche, era “ne pas désespérer Billancourt”, niente che dispiaccia e intristisca gli operai della Renault. Questi invece se ne fottevano, per loro il totalitarismo era l’Infâme secondo la antica definizione sprezzante volterriana.

ARTICOLI CORRELATI  E’ morto Glucksmann, una vita dalla parte del dissenso  Il golpe contro Kant  Non è il fatto, è l'intellettuale che non sussiste Glucksmann non aveva quarant’anni, all’epoca del suo primo libro (1975), e imboccò una parabola intellettuale, letteraria e politica di grande spessore. Impose al presidente Giscard di strepitare per i boat people, i povericristi costretti a lasciare via mare, in condizioni più che penose, il Vietnam unificato dai vietcong. Ottenne dai due grandi rivali ideologici, il marxista esistenzialista Sartre e il liberale Aron, di riunirsi alla Mutualité per una manifestazione di solidarietà alle vittime più recenti del sistema comunista. Poi ne fece di ogni: si batté per l’intervento occidentale in Bosnia, si era messo ai margini per diffidenza dall’ingombrante e lungo regno di Mitterrand, disse una cosa ovvia per un refoulé del comunismo internazionalista sovietico (“il problema non è il mio rapporto con la sinistra, ma quello della sinistra con il mondo”), militò per i ceceni contro la distruzione di quel paese e di quel popolo, fece dei diritti dell’uomo la sua scelta di vita, abbracciò l’ouverture di Sarkozy (compresa la grottesca impresa di Libia) e lo lasciò per il suo appoggio a Putin e il suo strumentale scaricabarile ideologico su zingari e immigrati. Accipicchia se era éclairé, tuttavia: il suo ultimo libro è un’ode a Voltaire e al suo racconto Candide, votato con rassegnazione alla comprensione del mondo com’è e non come dovrebbe essere e alla coltivazione del proprio giardino.

Glucksmann non aveva un giardino da coltivare, non era seigneur du village, non sarà sepolto come una rock star, ciò che a sorpresa avvenne al vecchio di Ferney, al castellano dei Lumi fattosi ginevrino. Era anche un po’ fuori squadra rispetto al suo tempo, aveva sostenuto la guerra di Bush in Iraq, in un pauroso isolamento franco-francese, e probabilmente aveva capito tutto dell’islam che però non era la sua partita nella Francia di Houellebecq e di Dominique Venner, ideologo della destra occidentalista suicidatosi nella cattedrale di Nôtre Dame de Paris vicino all’altare maggiore. Era comunque un bel tipo, uno coraggioso che aveva fatto della propria esposizione ai veleni della cultura ideologica una pratica di vita.

Categoria Cultura

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