Dalle intercettazioni alle commissioni. Perché affidare il regime change sulla giustizia ai magistrati è un errore strategico e politico di Giuseppe Di Federico | 14 Settembre 2015 ore 17:06 Foglio Al direttore - Una delle cose che ho maggiormente apprez

Dalle intercettazioni alle commissioni. Perché affidare il regime change sulla giustizia ai magistrati è un errore strategico e politico

di Giuseppe Di Federico | 14 Settembre 2015 ore 17:06 Foglio

Al direttore - Una delle cose che ho maggiormente apprezzato del governo Renzi è il pieno rinnovo del personale di governo, di ministri cioè che non sono condizionati da precedenti esperienze governative e da tentativi di riforma falliti. Una causa a mio avviso non secondaria delle iniziative di riforma che comunque le si voglia giudicare certamente rappresentano una novità di rilievo rispetto ad un passato di governi tanto cauti da risultare impotenti.  Purtroppo questo orientamento al nuovo non ha contagiato un settore di governo, quello della giustizia, che non è certo secondario per il benessere dei cittadini e per lo sviluppo economico del nostro Paese. Questo appare chiaramente allorquando si consideri la storia delle persone che il ministro della Giustizia Orlando ha nominato nelle due commissioni cui ha affidato il compito di elaborare le riforme di cui necessita la nostra claudicante giustizia. Sono quasi tutti magistrati e buona parte di loro sono stati, in vario modo, protagonisti della elaborazione e/o della gestione delle passate riforme della giustizia. Di riforme cioè che alla prova dei fatti sono spesso risultate dannose o, al meglio, inefficaci.

Se si considerano, infatti, i componenti delle due commissioni, ivi inclusi i tre magistrati componenti di diritto (ex officio), di entrambe le commissioni si può vedere che della prima commissione fanno parte 6 ex componenti del Csm (di cui 4 magistrati e 2 laici) 8 magistrati ordinari (inclusi i tre componenti di diritto), un avvocato-professore, 2 professori di diritto. Vi sono 12 magistrati o ex magistrati su 17 componenti.

Non dissimile la composizione della seconda commissione: 8 ex componenti del Csm (di cui 6 magistrati e 2 laici), 5 magistrati (inclusi i tre magistrati componenti di diritto), un professore universitario, un solo avvocato. In tutto 11 magistrati o ex magistrati su 15 componenti.

La presenza dei magistrati è ulteriormente rafforzata dal magistrato capo di gabinetto, cui è affidato il compito di coordinare il lavoro delle due commissioni e dai 7 magistrati che compongono la segreterie tecnico scientifiche.

Diverse sono le riflessioni utili a valutare la propensione riformatrice di queste commissioni. Ne ricordo solo alcune, le più generali e facili da esporre:

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La prima. Così come sempre avvenuto in passato anche questa volta le commissioni di riforma che riguardano importanti questioni ordinamentali (cioè quelle di maggiore interesse/rilievo corporativo per i magistrati) sono composte in assoluta, predominante maggioranza da magistrati, un fenomeno che si ripete da tempo ed è solo italiano. Così come in passato anche questa volta le riforme ordinamentali sono considerate dal Ministro un affare di famiglia dei magistrati. La presenza degli avvocati nelle commissioni è solo simbolica e tale da far pensare che i due avvocati siano stati inclusi per mera cortesia istituzionale.

Come già avvenuto più volte in passato, dalle commissioni sono rigorosamente esclusi coloro che hanno espresso documentate critiche al nostro assetto giudiziario e  che sono sgradite alla corporazione dei magistrati perché toccano i loro interessi. Non solo professori ma anche magistrati: ad esempio, non è stato preso in considerazione un magistrato componente dell’ultimo Csm, Aniello Nappi che, in maniera documentata, ha espresso in un suo libro aspre critiche sulla gestione corporativa e clientelare del Csm.

La seconda. Circa la metà dei componenti di entrambe le commissioni sono stati componenti di Csm del passato a partire dal 1986. Sono cioè coloro che in passato hanno contribuito personalmente a creare e solidificare proprio quelle disfunzioni che ora sono chiamati a correggere. E qui l’elenco sarebbe lungo. Solo qualche esempio con riferimento ad alcuni dei molti compiti di riforma assegnati alle commissioni. Dovrebbero riformare il CSM e certamente con esso il fenomeno del correntismo che ne condiziona le decisioni, dovrebbero riformare il sistema delle incompatibilità nonché quello delle valutazioni di professionalità. Affidare proprio a loro questi compiti può sembrare poco comprensibile per almeno tre ragioni:

- Perchè  anche loro che nei rispettivi Csm sono stati protagonisti della creazione e gestione del sistema correntizio che ormai tutti considerano gravemente disfunzionale.

- Perchè anche loro nei rispettivi Consigli hanno contribuito a creare quel sistema di prassi, solo italiana, che garantisce a tutti i magistrati, a prescindere dal reale accertamento del merito professionale, di raggiungere il livello massimo della carriera, dello stipendio, della pensione e della liquidazione (nonostante l’articolo 105 della Costituzione che assegni al Csm il compito di effettuare le “promozioni”). E per comprendere la dimensione del fenomeno basta ricordare che ciascuno dei consiglieri dei passati Csm ha partecipato a circa 4.000 inconsistenti valutazioni di professionalità. Dall’ analisi dei verbali dei diversi Csm risulta inoltre che nessuno di loro in sede consiliare si è col proprio voto sistematicamente dissociato da quella prassi.

- Perchè anche loro quand’erano consiglieri hanno consentito che moltissimi magistrati svolgessero per molti anni, a volte per decenni, compiti diversi da quelli propri del magistrato (di natura politico-partitica,e amministrativa), non solo ma li hanno anche sempre promossi per merito (quale?) al pari dei magistrati che svolgono funzioni giudiziarie.

- Perchè anche loro, con le loro iniziative e il loro voto hanno contribuito a mortificare drasticamente il potere di gestione e supervisione del lavoro dei capi degli uffici giudiziari, cosa e che nel caso degli uffici di procura ha portato al fenomeno della così detta “personalizzazione delle funzioni del PM” a scapito delle esigenze funzionali del coordinamento e della uniformità di azione nel settore delle indagini e dell’iniziativa penale.

Mi sono domandato perché il Ministro della giustizia abbia nominato quelle commissioni di riforma ordinamentale adottando criteri non dissimili dai suoi predecessori della prima Repubblica (tranne Claudio Martelli: ha nominato persino me). Mi sono ricordato che in una conferenza stampa Matteo Renzi rivolgendosi al Ministro della giustizia Orlando lo ha definito un doroteo. Che sia questa la ragione?

Aggiungo due postille:

La prima. So benissimo che le norme sulle valutazioni di professionalità previste dalle leggi del 2006/2007 e che ancor più le circolari del Csm sono molto rigorose sotto il profilo formale, tra le più rigorose e invasive dell’Europa continentale. Il lavoro e l’investimento organizzativo (e quindi anche i costi) che hanno generato sono certamente molto elevati, ma i risultati non differiscono significativamente da quando erano meno rigorose e stringenti. Uno dei pericoli delle riforme fatte da commissioni come quelle appena nominate è proprio che facciano riforme all’apparenza risolutive e che poi a livello interpretativo e operativo risolvano poco o niente.

La seconda. Ho partecipato in varia forma (personalmente o con contributi scritti) a diverse commissioni di riforma degli ordinamenti giudiziari di altri paesi: i magistrati non erano mai in maggioranza. Tra queste ne ricordo, a mo’ di esempio, solo una, cioè la “Commission de reflection sur la justice” istituita dal presidente francese Chirac nel 1997 (che doveva, tra l’altro occuparsi dell’assetto del pm). Dei 20 componenti solo 6 erano magistrati ordinari (3 giudicanti e 3 requirenti), 4 gli avvocati, 2 magistrati del Consiglio di Stato, 2 professori di diritto e 2 di filosofia, un ispettore delle finanze, 2 giornalisti, un prefetto. Lo stesso vale, in varie forme e proporzioni, anche per le commissioni di riforma ordinamentale nei paesi scandinavi, in Germania ed Austria. Oltre ad assicurare il contributo di esperienze e conoscenze differenziate è anche un modo per evitare che prevalgano orientamenti di natura corporativa. 

Giuseppe Di Federico è professore emerito di Ordinamento giudiziario

Categoria Giustizia

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