Il lavoro è un diritto, ma se non crea ricchezza sociale non serve a nulla

I militanti del Movimento 5 Stelle sono scesi a manifestare per il "diritto al non lavoro", il reddito di cittadinanza. Ma il vero problema dell'Italia non è l'articolo 1 della Costituzione, quanto il ripensamento di un modello di società e di mobilità sociale al passo coi tempi

di Francesco Luccisano , Stefano Zorzi da www.linkiesta.it 31.5.2017

"Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: "Ci metteremo a riparare gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci ringrazierà"

 

- Dal processo a Danilo Dolci

Il 2 febbraio del 1956 Danilo Dolci veniva arrestato per aver guidato alcune centinaia di disoccupati delle zone di Partinico in quello che venne poi definito lo "sciopero alla rovescia". Per protestare contro la mancata applicazione dell'articolo 4 della nostra costituzione, nel quale si sancisce il diritto, e il dovere, al lavoro, i disoccupati decisero di mettersi a riparare una strada comunale abbandonata.

Quei fatti ci sono ritornati in mente con forza nell’ultima settimana: sette giorni che si sono aperti con migliaia di militanti del Movimento Cinque Stelle in marcia per il diritto al non lavoro (il reddito di cittadinanza) e che si sono chiusi con una voce opposta e accorata, quella di Papa Francesco, che ha parlato agli operai ILVA di Genova: “dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti.”

Lo scontro “reddito vs lavoro” fa effetto perché ci ricorda che nonostante l'Italia di oggi sia enormemente più ricca oggi che ai tempi di Dolci, la promessa più bella della nostra Costituzione giace ancora lì, in gran parte irrealizzata. Ancor peggio, non è più una promessa: sono sempre più numerosi, infatti, in Italia e nel resto dell’Occidente, coloro che credono che ai cittadini non spetti più l’opportunità di rendersi utili e guadagnarsi da vivere tramite il lavoro, ma il diritto a consumare tramite un reddito.

Niente è più odioso dell'ipocrisia: e allora se abbiamo deciso di abbandonare la strada del lavoro e di intraprendere quella del reddito, facciamolo per bene: abroghiamolo una volta per tutti questo articolo 4, e già che ci siamo anche quell'articolo 1 dove si proclama che la nostra è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Prima della cancellazione, peró, può giovare un po’ di storia su cosa avevano in mente i nostri costituenti mentre proponevano questa strana locuzione. Per cominciare, pochi sanno che per soli sette voti l'attuale articolo 1 non recita: "l'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori". La discussione su questa proposta e il suo abbandono in favore del testo finale "fondata sul lavoro" torna utile oggi, in un momento in cui il lavoro, e i lavori, stanno cambiando a enorme velocità.

L'accento non è su un lavoro specifico o su un gruppo specifico di lavoratori. È su un modello di società, la prima che a differenza di quelle del passato dà risalto non alla ricchezza per sé, o all'atto di possederla, ma all'atto del crearla. È la rappresentazione perfetta del concetto di mobilità sociale abilitata dal lavoro.

Nell'immediato dopoguerra, infatti, “lavoratori” si riferiva inequivocabilmente al proletariato industriale e agrario, ai lavoratori dipendenti che chiedevano maggiori diritti ed emancipazione. Senza nulla togliere ai loro diritti, l'Assemblea seppe dare un significato più generale al lavoro come fondamento della Repubblica. Dire “lavoro” e non “lavoratori” apre infatti a un campo molto più vasto, che non sceglie tra fabbrica e ufficio, tra pubblico e privato, tra impiego subordinato e iniziativa imprenditoriale, tra attività retribuita (a quel tempo soprattutto maschile) e non retribuita (come gran parte del lavoro femminile del tempo, e ancora oggi).

“Fondata sul lavoro” significa allora, in maniera generale, che l’essere cittadini si basa su quello che fai, e che quello che fai conta di più di quello che sei:

“che cosa vuol dire infatti questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che essa mette l'accento su tutto ciò che è lavoro umano, che essa mette l'accento sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza. È il rovesciamento, insomma, delle vecchie concezioni, per cui si passa dal fatto della ricchezza sociale a considerare l'atto che produce questa ricchezza” [NB. Questo passaggio e i successivi sono tratti dal dibattito in assemblea costituzionale. Abbiamo omesso di citare gli autori per non farvi distrarre dalla provenienza politica. Rimandiamo i curiosi a Google. (N.d.A.)]

L'accento non è su un lavoro specifico o su un gruppo specifico di lavoratori. È su un modello di società, la prima che a differenza di quelle del passato dà risalto non alla ricchezza per sé, o all'atto di possederla, ma all'atto del crearla. È la rappresentazione perfetta del concetto di mobilità sociale abilitata dal lavoro.

Non è un caso, crediamo, che l'affermazione di questo modello abbia coinciso con il periodo di maggiore sviluppo e di mobilità sociale nel nostro paese come in tutti gli altri in cui sia stato adottato. E forse è bene ricordarlo a chi propone di lasciarcela alle spalle.

ll “fondata sul reddito” per cui hanno marciato gli attivisti del Cinque Stelle non è solo uno slogan, ma una visione opposta - e del tutto legittima - di societá, che unisce due matrici: quella statalista, per cui ai bisogni dei cittadini provvede la macchina statale, e quella consumeristica, per cui l’essere cittadini si concretizza nel mantenere un potere di acquisto, e non nel rimanere produttori di valore.

Non sembra casuale che i più grandi sostenitori del passaggio da lavoro a reddito siano oggi da un lato i grandi “oligopolisti dei dati” della Silicon Valley: ne parlavamo già mesi fa citando l’esperimento californiano di Y-combinator, ed è di pochi giorni fa l’endorsement di Mark Zuckerberg. Dall’altro lato, qui in Italia, a farsi portatore della necessità di un reddito senza lavoro è stato Beppe Grillo, che prima di entrare in politica divenne famoso proprio come paladino dei consumatori (memorabili le sue incursioni nelle Assemblee delle grandi aziende).

Entrambi sono motivati da buone intenzioni: ridurre le diseguaglianze e tendere una mano verso i più vulnerabili. Ma entrambi, accettando lo spostamento della creazione di valore dall’atto del produrre a quello del consumare, abbandonano ciò che il lavoro rappresenta: il diritto e il dovere di ognuno di contribuire al bene collettivo:

"Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale."

Dobbiamo certamente pensare anche a chi non può lavorare, e a chi non sarà in grado di adattarsi al cambiamento che stiamo vivendo: dobbiamo riempire i vuoti che l’innovazione crea nelle vite dei singoli. Ma non usiamo l'obbligo morale di non lasciare nessuno per strada come un alibi per non impegnarci a creare sviluppo, crescita, lavoro

Ecco perché non dobbiamo abolirlo, questo articolo 1. Ma rilanciarlo. La sfida esaltante che ci troviamo ad affrontare è invece quella di darvi un significato moderno. Se decidiamo, e basta farlo, che non ci vogliamo rassegnare ad abbandonare il fondamento della nostra democrazia, la domanda da porci è come fare per assicuraci che il lavoro rimanga creatore di “ricchezza sociale".

È una sfida che va combattuta su due fronti. Per prima cosa bisogna allargare la partecipazione ai settori dove il lavoro umano è ancora in grado di creare valore. Lavorando sulle competenze, sulla mobilità geografica, sulla facilità di sperimentare, creare e far crescere nuove imprese. Una forte agenda pro-crescita da scrivere a livello europeo aiuterebbe anche i tanti imprenditori e lavoratori bloccati da inefficienze burocratiche e bancarie.

In parallelo, va ripensato il concetto stesso di bene economico. È evidente infatti che ne abbiamo una concezione limitata, basata principalmente sulla produzione di beni di consumo che sono ormai abbondanti e dove la componente umana va a diminuire. La forte automatizzazione in corso (che ha poco senso fermare) non significa però che non ci siano più cose da fare per noi. Come diceva Keynes, la presenza di disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, e problemi, è un'anomalia. Abbiamo un pianeta di 7 miliardi e più da sfamare, una popolazione crescente di anziani da assistere e curare, un ambiente naturale in ebollizione che deve essere preservato, infrastrutture pulite da costruire.

Guardiamoci attorno e chiediamoci veramente se non c'è più lavoro. Non c'è veramente più bisogno di noi? Non c'è nessuna strada da riparare, persona da assistere, prodotto da inventare? Non ci sembra proprio, ed è per questo che tutta questa attenzione sul reddito di cittadinanza ci fa arrabbiare. Dobbiamo certamente pensare anche a chi non può lavorare, e a chi non sarà in grado di adattarsi al cambiamento che stiamo vivendo: dobbiamo riempire i vuoti che l’innovazione crea nelle vite dei singoli. Ma non usiamo l'obbligo morale di non lasciare nessuno per strada come un alibi per non impegnarci a creare sviluppo, crescita, lavoro.

Per questo anche l’agenda del dibattito pubblico deve evolvere. Parliamo di più di innovazione, pensiamo a come detassare lavoro anziché a come tassare i robot, e sediamoci insieme per capire come rilanciare gli investimenti. Torniamo a parlare di voglia e non di rassegnazione, di impegno più che di tempo libero, di obblighi verso i nostri figli più che di qualità della nostra vita.

"Vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti. E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta nell'interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana."

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