Ricorsi collettivi, come cambiano i diritti dei consumatori europei

L'Ue lancia la proposta della "class action" dei cittadini comunitari contro le corporation. Per i casi Dieselgate e Facebook. La Confindustria europea si oppone. Anche se le multe sono un terzo di quelle Usa.

GIOVANNA FAGGIONATO, 12.4.2018 www.lettera43.it

La differenza l'hanno fatta 19,5 miliardi di euro, cioè la cifra che separa i rimborsi ottenuti dai consumatori americani per la truffa del Dieselgate capace di avvelenare per anni l'aria che respiriamo e quelli intascati dai cittadini europei. I primi, ha calcolato la Commissione Ue, hanno strappato al colosso tedesco Volkswagen qualcosa come 25 miliardi di euro, i secondi in confronto hanno raccolto le briciole: appena 5,5 milioni.

VIA AI RIMBORSI COLLETTIVI. E alla fine lo scandalo delle emissioni, capace di disvelare tutto l'appeasement tra i palazzi europei e la potentissima lobby dell'automotive del Vecchio continente, ha portato a un risultato insperato: dopo anni di studi, riflessioni, consultazioni e di strenua opposizione delle associazioni industriali, l'esecutivo europeo ha presentato una proposta per dare il via ai rimborsi collettivi a favore dei consumatori. Una class action che non si può chiamare class action per non offrire la sponda ai critici interessati, da prime le associazioni industriali, da anni impegnati a sottolineare tutti i limiti del modello americano.

«GLI EUROPEI NON SONO DI SERIE B». Però gli ultimi scandali, con la differenza di trattamento riservata alle aziende che non rispettano le regole tra le due sponde dell'Atlantico, e il caso Facebook-Cambridge Analytica, hanno moltiplicato il pressing per riempire un vuoto legislativo ormai insopportabile: l'ultimo appello a favore delle cause collettive era venuto non a caso dal garante europeo per i dati personali, Giuseppe Buttarelli. «Gli europei», ha detto con un certo orgoglio la commissaria alla Giustizia Vera Jurova lanciando la proposta, «non sono consumatori di secondo livello. Vogliamo che i cittdini europei siano in prima classe. E oggi stiamo proponendo quello che molti credevano che non sarebbe stato possibile solo pochi mesi fa: la possibilità di fare ricorsi collettivi contro i modelli di business che mettono il profitto davanti al benessere collettivo».

Già nel 2017, quando la Commissione aveva lanciato una consultazione pubblica sull'argomento, la posizione di Business Europe era stata netta. L'associazione delle Confindustrie europee, presieduta da Emma Marcegaglia, aveva commissionato in partnership con la American Chamber of Commerce uno studio ad hoc sulle cause collettive negli Usa per dimostrare quanto fossero poco utili agli utenti e invece una lauta fonte di profitto per gli studi legali e di cause e di costi immotivati per le imprese. Per tentare di ottenere consensi, gli industriali sottolineavano come il potere di determinare i rimborsi dovesse restare nelle mani dell'autorità pubblica.

«CI GUADAGNANO GLI AVVOCATI». A un anno di distanza poco è cambiato. Le proposte della Commissione «sembrano una soluzione alla ricerca di un problema», è stata la reazione gelida del direttore generale di Business Europe Markus J. Beyrer, in un comunicato che insisteva ancora una volta sulle falle del sistema Usa: «L'esperienza degli Stati Uniti ci dice che gli avvocati sono i principali beneficiari, con un avvocato medio che guadagna 1 milione di dollari Usa per sinistro, mentre i consumatori ne ricevono solo circa 32. Nell'87% dei casi statunitensi, i consumatori non ricevono alcun compenso».

SOLO NON PROFIT AUTORIZZATE. Ma il modello proposto dalla Commissione è molto differente. Primo: il ricorso collettivo può essere proposto solo da una associazione dei consumatori e da un'organizzazione non profit riconosciuta, valutata e certificata. Secondo: il ricorso può essere avviato dopo che un'autorità giudiziaria ha dato il via libera. Un sistema che per la Beuc, l'associazione europea per la tutela dei consumatori, è fin troppo limitante.

ARMONIZZAZIONE SULLE SANZIONI. Seppur considerando l'iniziativa «veramente una buona notizia», i consumatori sono convinti che il passaggio attraverso un'autorità giudiziaria o nazionale possa impiegare anni e che gli Stati membri «avranno troppa libertà di decidere quali casi rientrano nel quadro del ricorso collettivo». Non avendo l'Ue competenza univoca, l'ultima parola spetta sempre alle autorità nazionali. Eppure il tentativo di armonizzazione c'è. E nel capitolo che conta di più: quello delle sanzioni.

Per Volkswagen la multa arriverebbe a 8,7 miliardi di euro, appena un terzo dei rimborsi già versati ai clienti americani dove i veicoli truccati erano appena 475 mila

Attualmente l'Ue è un mosaico di legislazioni differenti. Francia, Paesi Bassi e Polonia avrebbero potuto multare Volkswagen fino al 10% del suo fatturato - un tesoretto di oltre 217 miliardi di euro nel 2017. In Estonia il tetto massimo è di 32 mila euro, in Croazia di poco più di 13 mila, in Lituania di appena 8.688.

MULTE AL 4% DEL FATTURATO. In questa situazione, ha spiegato Jurova, in Europa «le aziende non avevano alcune timore delle sanzioni»: avrebbero sempre trovato Stati con condizioni favorevoli. La proposta della Commissione è di multare le infrazioni diffuse che colpiscono i consumatori in diversi Stati membri dell'Ue come minimo al 4% del fatturato annuale registrato nei diversi Paesi.

MA SONO ANCORA BRICIOLE. Gli Stati, se la proposta fosse approvata, potrebbero scegliere di aumentare la multa, ma non di abbassarla. Per Facebook, semmai ci dovessero essere nuove cause future, corrispondere a un rimborso di 1,6 miliardi di euro da sommarsi alle infrazioni previste a partire dal 25 maggio dal nuovo regolamento generale sulla protezione dei dei dati Ue. Per Volkswagen, considerando il fatturato globale, la multa arriverebbe al massimo a 8,7 miliardi di euro, molto meno prendendo in considerazione solo quello europeo. Ed è comunque appena un terzo dei rimborsi già versati ai clienti americani dove i veicoli truccati erano appena 475 mila, in Europa 8,5 milioni.

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