Investitori spaventati dal fisco ballerino

Non sono tanto il maggior carico fiscale o la competizione sulle aliquote tra i diversi paesi Ue a scoraggiare gli investimenti diretti esteri delle multinazionali in Italia, quanto il continuo variare della normativa fiscale.

di Luigi Chiarello,5.7.2019 www-italiaoggi.it

Non sono tanto il maggior carico fiscale o la competizione sulle aliquote tra i diversi paesi Ue a scoraggiare gli investimenti diretti esteri (Ide) delle multinazionali in Italia, quanto il continuo variare della normativa fiscale. Un mutamento costante negli anni, che rende agli occhi dell'investitore il perimetro delle regole «instabile» e «imprevedibile nella sua evoluzione». Un quadro normativo «perennemente temporaneo», con tutti i costi che ne conseguono, in termini di adeguamento, incertezza sul ritorno degli investimenti e contenziosi tributari. Questi ultimi, in particolare, vanno incontro a processi che durano in media otto anni. E rappresentano quasi il 40% del totale dei ricorsi pendenti in Cassazione. A sfatare uno dei refrain sulla scarsa appetibilità del Paese rispetto ad altri stati europei sono due docenti dell'università degli studi Milano-Bicocca: Alessandro Santoro, docente associato di Scienza delle finanze, e Nicola Sartori, anch'egli associato di diritto tributario. I due sono stati protagonisti di un intervento congiunto nel corso di un convegno, presso il medesimo ateneo, organizzato dalla Fondazione per la Sussidiarietà e dal Centro di ricerca Interuniversitario per i servizi di pubblica utilità (Crisp), dal tema «Perchè investire in Italia? Opportunità, lacci e lacciuoli». Appuntamento, sostenuto dal contributo di British American Tobacco Italia, la cui cornice - in termini di comparazione dei trend Ide tra i differenti stati dell'Unione - è stata delineata da Emilio Colombo, ordinario di politica economica all'Università Cattolica. E la cui chiusura è stata affidata a Emanuele Cusa, associato di diritto commerciale presso la Bicocca; quest'ultimo ha ripercorso i differenti strumenti normativi messi in campo, negli anni, dai governi italiani a sostegno del finanziamento delle pmi. Fino all'ultimo decreto crescita (dl n. 34/2019, convertito nella legge n. 58/2019.

Il trend degli investimenti diretti. Colombo ha fotografato le differenti performance: tra il 2013 e il 2018 i flussi di Ide in Italia sono stati in media meno dell'1% del Pil; si tratta di uno dei valori più bassi nell'Ue. Nello stesso periodo, in Spagna sono stati pari al 2,5% del pil, in Francia all'1,55%, in Germania all'1,8%, nel Regno Unito al 3,7%. Di più. Nonostante le incertezze per gli investitori causate dalla Brexit, la Gran Bretagna ha incassato nel 2018 flussi Ide pari al 2,1% del pil, contro l'1,5% dell'Italia. C'è poi l'altro lato della medaglia, che Colombo evidenzia a conferma della scarsa attrattività del Belpaese: considerando i soli investimenti greenfield - quelli volti a costruire un'attività produttiva all'estero, nel triennio 2016/18 gli imprenditori dello Stivale hanno effettuato all'estero investimenti pari a 3,7 volte quelli ricevuti in Italia, contro una media Ue dell'1,6. In sostanza, le aziende italiane sono più propense a investire all'estero di quanto non lo siano gli stranieri a investire in Italia. Cosa determina tutto ciò? L'ultima analisi Ernst & Young sull'economia italiana (2017) sciorina le cause: costo del lavoro eccessivo, scarso supporto alle pmi, scarsa propensione a innovare, eccessivo carico fiscale, bassi investimenti in infrastrutture e tessuto urbano.

Competizione fiscale. Il sistema italiano, secondo Santoro e Sartori è «permanentemente transitorio». Va «semplificato e stabilizzato». Accusa la «mancanza di un codice tributario, i continui cambiamenti di nozione di «paradiso fiscale», il frequente mutamento delle imposte. Ad esempio si è passati in pochi anni dalla Dit (1997/2004) alla mini-Ires (2019), alla thin capitalization (2004/07), all'Ace (2011/18). Al contrario, i due indicatori di carico fiscale dell'Italia (aliquota legale e aliquota media effettiva sugli investimenti) sono andati convergendo con le medie dell'Ue a 28 e di Eurolandia, dal 1995 a oggi.

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