Agrifoglio “Mangiare a Km 0” è una raccomandazione diffusa. Che impronta ha ciò che mangiamo?

Se questa è la premessa, vuol dire che il cibo a Km 0 avrebbe un impatto significativo solo se il trasporto fosse responsabile di un’ampia quota dell’impronta di carbonio finale del cibo.

da Redazione Web 06/05/2021 in I Numeri ilfoglio.it

“Mangiare a Km 0” è una raccomandazione diffusa. Intuitiva anche: meno trasporti meno

emissioni. Va bene, ci riflettiamo? Se questa è la premessa, vuol dire che il cibo a Km 0 avrebbe un impatto significativo solo se il trasporto fosse responsabile di un’ampia quota dell’impronta di carbonio finale del cibo.

Ecco, per la maggior parte degli alimenti, questo non è vero. Perché le emissioni di gas serra dai trasporti costituiscono una quantità molto piccola. Forse si potrebbe cambiare l’assunto di partenza: ciò che mangi è molto più importante del luogo da cui proviene il cibo.

Vediamo. La più grande meta-analisi dei sistemi alimentari globali fino ad oggi, pubblicata su Science, è redatta da Joseph Poore e Thomas Nemecek (2018). Gli autori hanno esaminato i dati di oltre 38.000 aziende agricole commerciali in 119 paesi. Tenendo conto non solo della CO2, che sì, è il gas serra più importante, ma non l’unico. L’agricoltura infatti è una grande fonte di gas serra, metano e protossido di azoto, insomma nel complesso usiamo l’acronimo GHG (gas a effetto serra).

Gli autori ci dicono che la maggior parte delle emissioni di gas serra deriva dal cambiamento dell’uso del suolo e dai processi nella fase dell’azienda agricola.

Va considerata, dunque, tutta la catena, anche quella “locale”. Quindi, le emissioni in fase agricola includono processi come l’applicazione di fertilizzanti – sia organici (“gestione del letame”) e sintetici, la fermentazione enterica (la produzione di metano negli stomaci dei bovini).

E ancora: le emissioni combinate dell’uso del suolo e della fase agricola rappresentano oltre l’80% dell’impronta per la maggior parte degli alimenti. Il trasporto? Niente, è un piccolo contributo alle emissioni. Per la maggior parte dei prodotti alimentari, rappresenta meno del 10% ed è molto più piccolo per i maggiori emettitori di GHG.

Non solo il trasporto, ma tutti i processi nella catena di approvvigionamento dopo che il cibo ha lasciato l’azienda agricola – lavorazione, trasporto, vendita al dettaglio e confezionamento – per lo più rappresentano una piccola quota delle emissioni.

Insomma, il Km 0 ha effetti minimi sulla impronta totale. Certo, per via della suddetta intuizione meno trasporti meno emissioni siamo portati a pensare sempre (e si vende e si sente) che più la mia bistecca viaggia più inquina.

E invece, non fa molto differenza. Nello specifico, per esempio, parlando di carne, che lo compro dall’allevatore sotto casa o da quello lontano, non cambia tanto. Non è il luogo a rendere grande l’impronta di carbonio della mia bistecca, ma il fatto che sia carne di manzo.

Dunque, meglio altra euristica: vogliamo ridurre l’impronta di carbonio del nostro cibo? Concentriamoci su ciò che mangiamo, non sul fatto che il cibo sia a Km 0.

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