Le due facce della diseguaglianza La povertà assoluta, ad esempio, è più che raddoppiata negli ultimi 15 anni.

Se però, anziché rivolgerci alle statistiche della povertà, ci rivolgiamo a quelle della distribuzione del reddito, il quadro che emerge è molto più sfumato…

8 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi fondazionehume.it lettura4’

 

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Che le diseguaglianze siano molto aumentate negli ultimi anni è nozione di senso comune. Alcune statistiche ufficiali sembrano supportare questa percezione: la percentuale di famiglie in condizione di povertà assoluta, ad esempio, è più che raddoppiata negli ultimi 15 anni. Se però, anziché rivolgerci alle statistiche della povertà, ci rivolgiamo a quelle della distribuzione del reddito, il quadro che emerge è molto più sfumato. L’indice di concentrazione del reddito di Gini (una statistica di cui esistono molte varianti) conferma che siamo uno dei paesi europei più diseguali, ma non mostra una chiara e univoca tendenza all’aumento della diseguaglianza. Alcuni studi rivelano anzi che il grado di diseguaglianza attuale è minore di quello degli anni ’70, e che gli interventi redistributivi attuati in questi anni di pandemia hanno attenuato il grado complessivo di diseguaglianza.

Come stanno dunque le cose? Perché una parte delle statistiche pare in conflitto con le nostre percezioni?

Un primo ordine di ragioni è che l’indice di diseguaglianza e quello di povertà assoluta misurano fenomeni diversi. Una crescita della quota di famiglie in povertà assoluta può benissimo non accompagnarsi a un aumento del grado di diseguaglianza. Un’eventualità del genere, ad esempio, può verificarsi se il potere di acquisto di tutti i ceti si abbassa nella medesima misura, facendo precipitare le famiglie più povere sotto la soglia (assoluta) di povertà. O se l’aumento della distanza fra ceti bassi e ceti medi è compensato da una diminuzione della distanza fra ceti medi e ceti alti.

Ma la vera origine dello scarto fra le nostre percezioni e le statistiche della concentrazione del reddito sta in una nostra confusione. Una sorta di spiazzamento temporale.

Noi continuiamo a pensare i problemi della diseguaglianza con gli occhiali della prima Repubblica, e non abbiamo ancora ben compreso come le cose hanno iniziato a funzionare nella seconda, ossia dopo il 1992-1993. La differenza cruciale fra i due periodi è che solo nel primo c’erano larghi margini per assicurare processi di mobilità assoluta, o strutturale: da contadini si diventava operai (anni ’50 e ’60), e poi da operai impiegati (anni ’70 e ’80), per la semplice ragione che lo stock di posizioni sociali “pregiate” era in aumento, e quello delle posizioni sociali marginali era in diminuzione. Di qui un flusso di transizioni ascendenti, cui corrispondeva un flusso di transizioni discendenti molto minore, in quanto era la struttura stessa dell’occupazione a evolvere in modo sempre più generoso. Di qui, anche, la sensazione di un pieno funzionamento del cosiddetto ascensore sociale.

 

Nella seconda Repubblica non è più così, e per forza di cose: la struttura occupazionale offre un mix di posizioni alte, medie e basse sostanzialmente stazionario, senza una significativa formazione di posti pregiati aggiuntivi. E, se le caselle da occupare sono più o meno le stesse, con i medesimi privilegi e i medesimi handicap, il grado di diseguaglianza complessiva non può variare granché. La competizione sociale diventa un gioco a somma zero: per ogni ragazzo che sale nella scala sociale rispetto ai suoi genitori, deve essercene uno che scende. Addio ascensore sociale, se per ascensore sociale intendiamo quel che abbiano sempre inteso: un mondo di opportunità, in cui la mobilità verso l’alto prevale nettamente rispetto a quella verso il basso.

In queste condizioni, l’unico tipo di eguaglianza concepibile diventa l’indipendenza del destino sociale di ogni ragazza o ragazzo dalle condizioni familiari di origine. I sociologi parlano in questo caso di mobilità relativa perfetta: c’è mobilità perfetta quando, pur rimanendo la struttura sociale quella che è, il figlio dell’operaio e quello del dirigente hanno le medesime possibilità di raggiungere posizioni elevate. Il che implica logicamente che, per ogni figlio di operaio che sale, dovrà esserci un figlio di dirigente che scende. Quanto si sia lontani da questa situazione teorica, è cosa che si vede ad occhio nudo. E spiega perché, nonostante le statistiche ci dicano che il grado di diseguaglianza è abbastanza stabile, la nostra impressione è di vivere in una società sempre più diseguale. Il fatto è che noi pensiamo l’eguaglianza in termini di pari opportunità, e constatiamo ogni giorno che, anche grazie al fallimento del sistema educativo, siamo sempre più lontani dalla situazione ideale.

Ma è solo questo cui aspiriamo quando parliamo di eguaglianza? Soprattutto, è solo questo che abbiamo in mente quando rimpiangiamo i tempi dell’ascensore sociale?

Non credo proprio. Quel che rimpiangiamo è un tempo in cui erano le opportunità a crescere, il che permetteva a molti di salire senza che fossero in troppi a scendere. Quel che dobbiamo chiederci, allora, è che cosa rendeva tutto questo possibile. O, se preferite, che cosa, nel passaggio fra prima e seconda Repubblica, ha alterato così radicalmente il gioco della mobilità sociale.

Ebbene, la risposta è di una sconcertante banalità: quel qualcosa è il trend del Pil e della produttività che, dopo essere cresciuti vigorosamente per tre decenni, dopo il 1992-93 sono rimasti al palo. L’ascensore sociale richiede aumento dei posti pregiati, e l’aumento dei posti pregiati, a sua volta, richiede che l’economia cresca, almeno nel medio periodo. È prosaico, ma senza un ritorno della crescita anche i problemi della diseguaglianza avranno ben poche chance di fare passi avanti significativi.

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