E' vero boom? Tra eldorado e fallimento, Italia in declino strutturale: lo spread da abbattere è quello politico

La resilienza delle imprese ha fatto fronte all’assenza di una politica industriale, la crescita è drogata da Superbonus e sussidi, occorre ridisegnare un modello di sviluppo

Enrico Cisnetto — 24 Marzo 2024 ilriformista.it

Se c’è una cosa che fa male alla salute di un paese – ai suoi cittadini, alle attività economiche, alla vita politica – è l’uso strumentale, sia in chiave ottimistica che pessimistica, dei dati relativi alla congiuntura economica e finanziaria. In Italia questa doppia forzatura della realtà è pratica antica, ma in questi ultimi tempi avviene con maggiore frequenza e in modo sempre più sfacciato. Fateci caso: i partiti di maggioranza, i giornali che ad essi fanno riferimento e gli economisti di area (brutta espressione, lo so, ma in alternativa me ne sono venute alla mente solo di peggiori) suonano la grancassa del “tutto va bene, anzi benissimo” e bollano i dati inequivocabilmente negativi come fake news propalate dagli avversari (pardon, nemici); quelli di opposizione, con il codazzo di media e centri studi vari, fanno l’opposto. Così, a dar retta a questi “opposti estremismi”, l’Italia oggi o è un eldorado capace di “fottere” Germania e Francia, o è un paese ad un passo dal fallimento abitato da un esercito di gente alla fame. Ovviamente non è così, in entrambi i casi. Dunque, vediamo di capire, armati di sano realismo, come stanno davvero le cose.

Tra eldorado e fallimento, Italia in declino strutturale

L’Italia è un paese in declino strutturale. Lo è dall’inizio degli anni Novanta, sia rispetto al suo andamento dal dopoguerra in poi, sia nel confronto con i paesi più avanzati. Questo gap – di reddito prodotto, di produttività, di competitività, di ammodernamento infrastrutturale e tecnologico, di funzionamento della burocrazia e della giustizia, e così via – si è accentuato con le crisi del 2008 e del 2011 e poi con la pandemia, ed è a fronte di una spesa pubblica (supera i 1.200 miliardi, cioè ben oltre la metà del pil) e di un debito (a gennaio era a 2.849 miliardi, oltre 96 miliardi rispetto ad un anno prima, e pari nel 2023 al 137,3% del pil) che risultano fortemente improduttivi, oltre a pesarci sulle spalle come macigni. In questo quadro, la ciambella di salvataggio che ci ha tenuti a galla è la resilienza del nostro sistema industriale, o meglio di una parte di esso, che ha saputo produrre esportazioni ad un livello eccezionale (secondo Sace nel 2023 l’export ha toccato i 660 miliardi) e che ha compensato la stagnazione dei consumi interni (la spesa complessiva annua delle famiglie è ancora sotto il livello pre Covid di 20.914 euro).

La crescita con la “droga” dei bonus

Dal 2000 in poi la crescita del pil è stata complessivamente stagnante, considerato che le tre recessioni che si sono susseguite in questo quarto di secolo sono state assorbite dai successivi rimbalzi. Negli ultimi due anni la crescita è stata più sostanziosa (+4% nel 2022, + 0,9% l’anno scorso), soprattutto grazie alla “droga” dei bonus edilizi (il settore si è sviluppato di oltre il 10%), che però è pesata enormemente sul bilancio dello Stato. Ma via via l’effetto si è attenuato (nel 4° trimestre 2023 il pil ha fatto un +0,2% congiunturale e +0,6% tendenziale), tanto che le previsioni più autorevoli si attestano ad una crescita di 7 decimi di punto per quest’anno (+1,2% dice il governo) e intorno all’1,1-1,2% per il 2025. Poco se consideriamo il nostro gap strutturale, non male se si guarda l’andamento degli altri partner europei, considerato che la Germania è in recessione e la Francia arranca faticosamente. Comunque non tale da giustificare né il giubilo del centro-destra – considerato che a gennaio la produzione industriale è risultata in calo del 3,4% su base annua, perché la domanda debole e i magazzini già pieni di scorte hanno indotto le imprese manifatturiere a rallentare l’attività – né il catastrofismo del centro-sinistra (perché non dire che il nuovo provvedimento chiamato Transizione 5.0 è molto atteso e non potrà che fare bene alle imprese, e in particolare al loro livello di innovazione?).

La politica deve smettere di dare il peggio di sé

La verità, come ha scritto l’altro ieri Dario Di Vico, è che se gli imprenditori hanno imparato, pur con qualche ritardo, a gestire la “ristrutturazione continua” che la rivoluzione tecnologica in atto impone, poi sono frenati dai fattori esogeni – dal costo del denaro imposto dalla conversione a U fatta dalla politica monetaria, alle angosce prodotte dalle dinamiche geopolitiche – e investono poco, molto meno di quanto potrebbero e di quanto sarebbe necessario. Questo dovrebbe indurre la politica a smettere di dare il peggio di sé – anche l’incertezza generata dal vedere la continua e progressiva divaricazione che si produce tanto nell’alleanza di governo quanto sul fronte delle opposizioni, non favorisce gli investimenti – e provare a capire quali politiche industriali potrebbero e dovrebbero essere messe in campo per attenuare la discontinuità che si è prodotta tra la fine dell’era del superbonus (che andava gestita con maggiore gradualità) e la mancanza di un format di crescita alternativo. Mi cascano le braccia quando vedo che c’è chi si dà di gomito per festeggiare “il sorpasso” sulla Germania (discorsi parlamentari, non chiacchiere al bar), senza pensare che l’impasse del nostro principale mercato di sbocco è un grave problema per le nostre filiere industriali.

La favola dello spread

C’è da reinventare singoli modelli di business, da ridisegnare le catene del valore, da ripensare i modelli di sviluppo complessivi. E invece noi ci infiliamo in una polemica più stupida dell’altra. Da un lato si accusa la Bce per i tassi alti e dall’altro si annuncia trionfalmente il contenimento dell’inflazione nostrana, ormai prossima al livello target del 2%, come se non fosse stata la politica dei tassi ad arginare e ridurre la fiammata inflazionistica. Dall’altro si inneggia allo spread come tifoso di una squadra di calcio di fronte ad un goal. Ora è vero che il differenziale tra i nostri Btp e i Bund tedeschi è sceso del 25% da inizio anno, arrivando a 127 punti, meno della metà dei 280 di maggio 2019 e lontani anni luce dai quasi 600 punti che nel 2011 costrinsero Berlusconi a passare il testimone a Monti. E che dunque si tratta di una buona notizia. Ma è non meno vero che il nostro resta lo spread più alto d’Europa, se si escludono Repubblica Ceca e Ungheria, visto che tutti sono scesi (anche per via delle difficoltà attraversate dall’economia tedesca), compresi quelli di paesi che avevano un debito alto o economie in difficoltà come Spagna (80), Portogallo (62) e Belgio (53). Ed ha ragione da vendere Lorenzo Bini Smaghi quando spiega che il nostro vero vulnus è avere un rating tripla B, appena sopra il livello che renderebbe i nostri Btp “titoli spazzatura”. E che se il governo vuole davvero guadagnarsi il plauso deve fare come hanno fatto spagnoli e portoghesi, che grazie alle loro politiche sono riusciti a passare da BBB a rispettivamente A e A-. Cosa che resta impossibile avendo un rapporto deficit-pil al 7,2% e un saldo primario (indebitamento netto meno la spesa per interessi) che pur in miglioramento è ancora negativo: 70.864 milioni, con un’incidenza sul pil del -3,4% (nel 2022 era al -4,3%).

Per questo il vero spread da abbattere, se vogliamo che l’Italia agganci la ripresa in modo sano e non drogato, è quello politico. Va mandato a casa il bipolarismo degli opposti estremismi, l’ottimismo di maniera e il pessimismo per definizione, e consegnato il Paese nelle mani di chi pratica il realismo, guardando in faccia la realtà e parlando parole di verità anche quando posso essere scomode.

Enrico Cisnetto – Economista, ideatore e direttore di War Room www.war-room.it

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