Mostrare ciò che l’industria preferisce nascondere. La moda che non nasconde più le sue cuciture:

la rivoluzione silenziosa che chiede trasparenza renda tracciabili tutte le filiere della moda

Ilaria Donatio 31 Ottobre 2025 alle 16:46 ilriformista.it lettura3’

È davvero possibile una fashion revolution che renda tracciabili tutte le filiere della moda, anche quelle più presentabili e, almeno in apparenza, etiche? La domanda resta aperta, ma a più di dieci anni dal crollo del Rana Plaza – la fabbrica di Dacca dove morirono oltre mille persone – il movimento nato da quella tragedia continua a interrogare l’intero sistema. Il movimento Fashion Revolution, fondato nel 2013 da Carry Somers e Orsola de Castro, è cresciuto fino a diventare una rete mondiale che chiede trasparenza, giustizia e sostenibilità in un settore ancora segnato da catene produttive opache.

L’idea è semplice e radicale: mostrare ciò che l’industria preferisce nascondere.

Da qui le due campagne simbolo: “I made your clothes”, in cui chi cuce un abito si mostra con orgoglio, e il Transparency Index, che misura quanto i marchi rendano pubbliche le informazioni su fornitori e condizioni di lavoro. La trasparenza non è il punto d’arrivo, ma il presupposto di ogni responsabilità reale. E, come ricorda Alessandra Gallo, consulente di strategia di prodotto per la moda a basso impatto, «tra le macerie del Rana Plaza non c’erano solo brand di fast fashion: anche marchi di alta gamma avevano fili invisibili che li legavano a quella fabbrica».

In Italia il tema tocca un nervo scoperto. Il Paese produce gran parte della pelletteria di lusso europea e ospita una filiera diffusa fatta di subappalti e laboratori invisibili. Qui lavora Abiti Puliti, la sezione italiana della Clean Clothes Campaign, che indaga i meccanismi nascosti del tessile e le responsabilità delle imprese committenti: riportare alla luce la parte oscura di un’eccellenza che si racconta etica ma spesso non lo è.

Dalla necessità di un approccio più etico alla produzione di moda e più cosciente del suo impatto, è nato il Collettivo Moda Consapevole ETS (Ente del Terzo Settore). «Con altri brand romani ci siamo chiesti: possiamo fare qualcosa per creare sul nostro territorio maggiore consapevolezza sui temi della moda etica e della riduzione dell’impatto?», racconta Gallo, consulente di moda a basso impatto e docente allo IED, dove insegna come costruire brand circolari. Come professionista si pone l’obiettivo di agire su tre fronti: aiutare le piccole aziende a fare scelte etiche, formare i designer del futuro e sensibilizzare i consumatori.

Il collettivo, nato da sei realtà e oggi composto da undici fondatrici, punta a costruire una rete di piccoli brand, upcycler e artigiani che producono moda a basso impatto. «Entrare nel territorio è importante – spiega Gallo – perché i giovani brand nascono già con l’idea di sostenibilità, ma vanno aiutati a crescere, partecipare a fiere, accedere a bandi». Il 1° ottobre, al Campidoglio, l’associazione si è presentata con un talk sul settore tessile che ha coinvolto scuole di moda e studenti impegnati in progetti di upcycling.

La prospettiva è farne un format replicabile in altre città, «trasformando la moda da sistema centralizzato a sistema diffuso, costruendo aggregati e reti associative». Un modello che sostituisce la gerarchia con la cooperazione e fa della trasparenza la sua infrastruttura comune.

Intanto l’Europa si muove. Con la Corporate Sustainability Due Diligence Directive, adottata nel luglio 2024, le imprese dovranno identificare e prevenire i rischi ambientali e sociali lungo tutta la catena di fornitura. Per il tessile, è un cambio di paradigma: la trasparenza non sarà più una scelta, ma un dovere.

Eppure nessuna norma può bastare da sola. Una vera rivoluzione della moda richiede un’alleanza tra istituzioni, produttori e cittadini: dal basso, come il collettivo romano, e dall’alto, con regole che rendano visibile ciò che ancora si nasconde sotto le cuciture.

Perché la moda etica, per esistere davvero, deve prima di tutto essere onesta.

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