Chi è il 26enne che rischia di dare il colpo di grazia

 all'economista star Piketty Matthew Rognlie, il suo commento su un blog economico, e il ruolo del settore immobiliare nel far apparire "onnipotente" il reddito da capitale

di Luciano Capone | 27 Marzo 2015 ore 14:03 Foglio

Non c’è dubbio che il “Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty sia stato il libro di economia dell’anno, non solo perché così l’ha incoronato il Financial Times, ma per l’impatto di vendite con oltre 1 milione e mezzo di copie vendute e per i riconoscimenti dei colleghi. I premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman hanno definito l’opera di Piketty “di fondamentale importanza” e “il più importante libro di economia del decennio”, complimenti anche da un altro Nobel come Robert Solow e in generale da tutti gli economisti di tendenza liberal. Anche chi come Greg Mankiw ha contestato le conclusioni cui giunge l’economista francese e le soluzioni che propone, ha apprezzato l’immenso lavoro di ricerca sull’enorme mole di dati osservati e analizzati. In molti, a partire dallo stesso Financial Times che l’ha premiato, hanno contestato i dati di Piketty, hanno mostrato diversi errori e alcune manipolazioni, ma nessuno era riuscito a colpire al cuore la sua teoria sulla naturale tendenza del capitalismo ad ampliare le disuguaglianze. Ora quel qualcuno è uscito fuori e non è un economista di fama mondiale (o almeno non ancora), ma uno sbarbatello di 26 anni da poco laureato al Mit di Boston.

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Il suo nome è Matthew Rognlie e ha presentato la sua critica a Piketty alla prestigiosa Brookings Institution alla presenza del premio Nobel Robert Solow, con uno studio poi ripreso da testate come il Financial Times, l’Economist, Bloomberg e il Washington Post. La storia del successo di Rognlie e della sua critica a Piketty nasce però per caso, da un commento su un blog. Certo, non uno qualsiasi, ma Marginal Revolution, uno dei blog economici più seguiti. Il commento viene molto apprezzato da Tyler Cowen, l’economista della George Mason University che cura il blog, che gli dedica un post, poi Rognlie amplia e integra con dati quel breve commento che diventa uno studio pubblicato sul suo sito e poi un paper presentato alla Brookings.

Per farla breve, il nucleo del libro di Piketty è l’individuazione di questa specie di “legge ferrea del capitalismo” che porta il capitale a crescere più dell’economia: ciò comporta un aumento delle disuguaglianze a vantaggio del capitale rispetto al lavoro che spingerà il mondo nelle stesse condizioni economiche dell’800. Il periodo di maggiore uguaglianza avvenuto nella prima metà del Novecento è solo una parentesi nella storia del capitalismo, dovuto alla distruzione del capitale causata dalle guerre mondiali e dalla Grande Depressione; a partire dal Dopoguerra il capitale ha cominciato di nuovo ad accumularsi e la sua quota rispetto al pil aumenta costantemente. È la conseguenza della formula r>g,  il rendimento del capitale cresce più di quanto faccia il pil.

Il ragazzo contesta la “legge di Piketty”, sostenendo che non è affatto detto che il rendimento del capitale sia destinato a rimanere così alto, anzi, per la legge dei rendimenti marginali decrescenti, quanto più il capitale si accumula tanto più il tasso di ritorno sul capitale è destinato a ridursi. Questa è una contestazione che in molti avevano fatto a Piketty, ma lo studente del Mit è andato oltre ed ha osservato com’è composto il reddito prodotto dal capitale. Utilizzando i dati delle sette principali economie occidentali, Rognlie ha mostrato come l’aumento della quota di reddito prodotta dal capitale in realtà è dovuto ad una sola voce, il settore immobiliare, mentre per tutti gli altri settori la quota di reddito da capitale è rimasta costante, addirittura in leggero calo. In pratica è l’aumento dei prezzi e dei valori delle costruzioni il fattore interamente responsabile della crescente preponderanza del capitale nell’economia e quindi qualcosa che non riguarda prettamente i boss della finanza, i padroni delle ferriere o dei robot, ma tutti i proprietari di immobili che sono in larga misura lavoratori.

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