Marchionne e la nuova produttività, Gli stipendi legati all’efficienza, la rivolta di Landini,

la solitaria battaglia anti corporativa nel 2010, la sfida a sindacati e industriali. Da dove arriva l’ultima rivoluzione dell’ad di Fiat. Parlano Annibaldi, Berta e Ichino

di Marco Valerio Lo Prete | 17 Aprile 2015 ore 06:04 Foglio

Roma. Il 1993 fu un anno più grigio e placido del 1992 che lo aveva preceduto. Sicuramente il 1993 sarebbe oggi più difficile da sceneggiare del “1992” di Tangentopoli. Ma quello non fu un anno meno importante per l’economia italiana. Nel luglio del 1993 fu siglato il Protocollo che cristallizzava la “concertazione”, con la firma di Cgil, Cisl e Uil, Confindustria e governo Ciampi in calce a un documento su politica dei redditi, occupazione e contrattazione (in primis nazionale). I partiti politici, allora sotto schiaffo, si lasciavano scavalcare da supplenti d’ogni tipo; le associazioni di rappresentanza non si fecero pregare, vantando legittimità e competenza agli occhi di tutti. Così il 1993 divenne l’anno del Protocollo, e non a caso pure l’anno della riforma delle Camere di commercio, da allora governate dalle stesse associazioni imprenditoriali; e poi l’anno di istituzione dei Caf, centri d’assistenza fiscale in mano ai sindacati. Ventidue anni dopo, mentre collassa definitivamente lo spirito della concertazione – con la prima azienda metalmeccanica italiana (la Fiat) che adesso tenta una rivoluzione perfino nel sistema retributivo dei suoi quasi 50 mila dipendenti –, il governo Renzi compie per via parlamentare una mini rottamazione di quelle dependances burocratiche gestite dalle parti sociali. Concertazione, Camere di commercio, Caf: simul stabunt, simul cadent.

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L’ultima puntata della rivoluzione in corso nelle relazioni industriali italiane è di ieri: Fim-Cisl, Uilm, Ugl, Aqcf hanno sottoscritto un “verbale di condivisione” dell’incontro svoltosi con i rappresentanti di Fiat. Si tratta di un “sì” di massima alla nuova politica retributiva proposta due giorni fa da Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles. Una politica che prevede un bonus annuale calcolato in base all’efficienza dei singoli stabilimenti (ormai largamente misurabili grazie al sistema di gestione World class manufacturing) e un altro bonus legato ai risultati del gruppo nell’area euromediterranea. Se i risultati dei prossimi quattro anni saranno conformi agli obiettivi prefissati dal gruppo, un operaio specializzato avrà un aumento di 1.400 euro annui dal 2015 al 2017 e poi di 2.800 euro nel 2018. Addio dunque al salario inteso come “variabile indipendente”, addio all’attenzione maniacale per i minimi tabellari decisi a Roma nei contratti nazionali. Poco da stupirsi se Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil, arcinemico di quel Marchionne che negli scorsi anni lo ha sconfitto in fabbrica nei referendum tra i lavoratori, ieri denunciava pure lui la “rivoluzione” in corso: “Un sistema rivoluzionario in cui l’azienda decide unilateralmente e i sindacati compiacenti aderiscono alla proposta”, ha commentato critico.

“Marchionne continua nella sua opera di cambiamento del sistema delle relazioni industriali del paese, un cambiamento che va nella giusta direzione – dice al Foglio Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del Pd – Ma non dimentichiamo che la nuova politica retributiva è resa  possibile da un’altra rupture praticata negli scorsi anni da Marchionne, cioè l’uscita di Fiat dal contratto nazionale di settore. E’ grazie all’autonomia conquistata e alla possibilità di modificare la struttura della retribuzione che oggi Fiat può proporre di accrescere la parte variabile del salario”. Il 29 dicembre 2010, infatti, per lo stabilimento Fiat di Pomigliano fu firmato un “contratto collettivo specifico di primo livello” tra azienda e rappresentanti dei lavoratori; così il Lingotto uscì formalmente dagli accordi firmati per tutto il settore metalmeccanico da Federmeccanica e centrali sindacali. Oggi assistiamo di nuovo a una delle conseguenze concrete  della fine del monopolio della rappresentanza: “Aumentare la parte variabile del salario, in relazione all’efficienza degli stabilimenti e alla redditività dei gruppi, è una tendenza globale, quantomeno nel settore automotive – dice al Foglio Giuseppe Berta, docente della Bocconi – Grazie al sistema di gestione delle fabbriche World class manufacturing, infatti, prestazioni ed efficienza di ogni stabilimento diventano trasparenti”. Sostiene Berta, grande conoscitore della storia industriale, che “il fordismo, con l’idea che il lavoratore consegna semplicemente le proprie braccia al datore di lavoro, che poi può farne quel che crede, è ormai vetusto. Oggi dai lavoratori ci si attendono elementi di partecipazione attiva”. Nel senso, per esempio, che ai vari team leader che guidano i gruppi di lavoro in Fiat si richiede di “presidiare il flusso produttivo”, e a ogni singolo “la responsabilizzazione nei confronti della squadra in cui è inserito o che guida”.

A questo punto il sindacato italiano dovrà cambiare marcia, osserva Berta, “abbandonare la convinzione che esista una frattura insanabile tra lavoro e capitale. Per l’IgMetall in Germania, per l’Uaw negli Stati Uniti o per i sindacati giapponesi, la partnership fra impresa e sindacati fa largamente aggio sul conflitto. Che comunque, quando si manifesta, non è un conflitto sociale ma di interessi, quindi più facilmente conciliabile”. Marchionne, quando dice “basta alle relazioni industriali stagnanti”, quando lega l’andamento degli stipendi dei lavoratori al loro atteggiamento e alle sorti del gruppo, va di fatto in questa direzione. “Ma il sindacato continua a mostrare di non sapersi pienamente inserire in questi processi”, dice al Foglio Cesare Annibaldi, uno dei tre storici responsabili per le relazioni industriali che si sono succeduti in Fiat negli ultimi 70 anni. Prima di lui ci fu Vittorio Valletta, dopo di  Paolo Rebaudengo. “La Fiom-Cgil, tenendosi fuori, compie la scelta più semplice e banale. Ma agli altri sindacati non basterà firmare gli accordi per essere incisivi”. Sottolinea Annibaldi che Marchionne, par arrivare al punto in cui è oggi, nel 2011 ha dovuto pure fare uscire Fiat dalla Confindustria che cento anni prima aveva fondato: “Il problema di Viale dell’Astronomia non è questo o quel presidente – conclude – Ma la difficoltà strutturale a coagulare interessi sempre più eterogenei. Confindustria ha un problema d’identità, serio”.

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