Perché è di sinistra abbattere il totem del contratto nazionale

Al di là di alcuni interessati protezionismi, c’è coerenza sociale, etica ed economica nella contrattazione decentrata

di Pietro Ichino | 08 Ottobre 2015 Foglio

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Quanto più deboli sono i totem della vecchia sinistra sindacale e politica, tanto più drammaticamente aggressivo è il linguaggio mediatico con cui la sinistra stessa cerca di demonizzare le proposte di riforma della materia. Requisito indispensabile per la sopravvivenza del totem debole è che del merito della questione non si discuta; imprimere preventivamente su qualsiasi proposta di riforma un marchio di vergogna e di obbrobrio serve proprio per impedire che le persone perbene aprano anche soltanto un minimo spazio di discussione in proposito.

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Oggi il totem sul quale occorre impedire la discussione è il sistema centralizzato di determinazione dei minimi salariali; dunque l’inderogabilità del contratto collettivo nazionale di settore. Chiunque proponga di discutere dell’opportunità di decentrare il meccanismo di determinazione dei minimi retributivi viene bloccato con l’accusa di voler “reintrodurre le gabbie salariali”. L’accusa ha una portata infamante abbastanza grave perché il discorso si chiuda prima ancora di aprirsi. Se la discussione si aprisse, ci si accorgerebbe che, in realtà, ciò che si propone è esattamente il contrario di una “gabbia”: è precisamente “sgabbiare la contrattazione dei salari”, consentendo che al livello aziendale, o regionale, o “macro-regionale” si possano negoziare i minimi retributivi anche in deroga al contratto nazionale; ma è proprio questa derogabilità che la vecchia sinistra vuole evitare, per tema che ne risulti ridotto il peso del contratto collettivo nazionale, quindi il potere di chi lo negozia, cioè degli apparati sindacali nazionali.

Allo stesso modo quando, cinque anni or sono, Sergio Marchionne attentò a questo principio fondamentale chiedendo per il suo piano industriale tre deroghe al contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, il marchio di vergogna e di obbrobrio consistette nell’accusa di “attentare ai diritti fondamentali dei lavoratori”. A cinque anni di distanza è evidente a tutti che quelle deroghe non attentavano ad alcun diritto dei lavoratori, ma soltanto al potere dei funzionari della Fiom nazionale e delle loro controparti di Federmeccanica di dettar legge sulla materia; e che per lo sviluppo del Mezzogiorno servirebbero non uno ma 100, 1.000 piani industriali come quello di Marchionne.

Oggi il governo si propone di abbattere questo totem. Non, come vorrebbe una lettura frivola, per menare una bastonata in testa ai grandi sindacati nazionali: tra i quali, anzi, il governo avrebbe un forte interesse a distinguere in relazione alle profonde differenze di orientamento e comportamento su questi temi cruciali. Ma per quattro motivi essenziali così sintetizzabili.

1. Un’esigenza di coerenza interna del nostro sistema, quindi di un suo funzionamento corretto. Il modello centralistico di determinazione degli standard di trattamento dei lavoratori si fonda sul principio per il quale, quando una azienda non riesce a reggere lo standard di trattamento minimo, è bene che essa chiuda e che ciascuno dei suoi dipendenti migri verso un’azienda più forte, capace di valorizzare meglio il suo lavoro. In Italia tale implicazione fondamentale del sistema di determinazione centralizzata degli standard non è mai entrata a far parte della cultura delle relazioni industriali. Ancor meno siamo disposti ad accettare che, in forza di quell’implicazione, si attivino robusti flussi migratori dal mezzogiorno verso il nord: al punto che ci siamo assuefatti a un mezzogiorno nel quale metà del tessuto produttivo funziona sotto-standard, quindi al di fuori delle regole stabilite centralmente. Se così è, logica vuole che ne traiamo le conseguenze, accettando che il contratto nazionale svolga solo la funzione di disciplina di default, applicabile nei casi in cui faccia difetto un contratto stipulato a un livello più vicino al luogo di lavoro.

2. Un’esigenza di coerenza con la scelta del sistema monetario unico continentale. La Banca centrale europea non perde occasione per ricordarci che, disattivate al livello nazionale le due leve della svalutazione monetaria e degli aiuti di stato, il superamento della rigidità degli standard retributivi verso il basso, ovvero l’adozione di un meccanismo di determinazione di standard retributivi capace di adattarli rapidamente alle congiunture negative e alle circostanze periferiche particolari, è diventata una necessità ineludibile, se nei periodi di vacche magre vogliamo evitare forti aumenti della disoccupazione e l’avvitarsi della crisi.

3. Un’esigenza di coerenza etico-sociale e di razionalità economica. L’Italia è un paese nel quale si registrano forti differenze di potere d’acquisto della moneta. La vita in una città del nord costa fino a un terzo in più rispetto a una città del sud; col risultato che applicare lo stesso salario nominale in tutto il paese significa di fatto retribuire il lavoro in misura nettamente superiore al sud rispetto al nord. Cosa iniqua sul piano sociale, ma anche dannosa sul piano economico, se è vero che al sud il tasso di disoccupazione è molto maggiore che al nord. I minimi tabellari fissati dai nostri contratti nazionali oggi non sono soltanto troppo alti per il sud, ma anche troppo bassi per il nord.

4. Un’esigenza connessa strettamente col fenomeno della globalizzazione. La globalizzazione, nel mercato del lavoro, non consente la concorrenza senza frontiere soltanto fra i lavoratori, ciò che li indebolisce, ma anche fra gli imprenditori: e questo potrebbe rafforzare la posizione dei lavoratori, producendo un miglioramento dei loro trattamenti. Sennonché nei decenni passati noi italiani siamo stati particolarmente impegnati a erigere barriere per impedire questa concorrenza internazionale: non soltanto barriere politico-culturali, ma anche barriere istituzionali; e fra queste un ruolo – certo non esclusivo, ma assai importante – è svolto proprio dall’inderogabilità del contratto collettivo nazionale, con le sue centinaia di regole minuziose in materia di livelli e struttura delle retribuzioni, inquadramento professionale, organizzazione del lavoro, distribuzione degli orari, e così via. Ogni multinazionale ha il proprio modello di organizzazione del lavoro e di struttura della retribuzione: non ama vedersi imporre schemi, magari vecchi di decenni, comunque negoziati a tavoli ai quali non ha neppure partecipato. Consentire che il contratto aziendale sostituisca il contratto nazionale significa consentire alle multinazionali di insediarsi in casa nostra portandosi dietro, intatto, il proprio modello di organizzazione del lavoro e delle retribuzioni. Non è cosa da poco.

Pietro Ichino è senatore del Partito democratico

Categoria Economia

COMMENTO

Lorenzo Tocco • 7 ore fa

Sono un dipendente e lavoro a Torino. Non ho particolare simpatia per il sindacato, tranne rare eccezioni. Però mi piace guardare alla "ciccia": seguendo il ragionamento di Ichino noi che lavoriamo al nord siamo svantaggiati perché il costo della vita è maggiore che al sud, e quindi in pratica è come se avessimo uno stipendio inferiore (e questo è vero, non solo per gli alimentari ma anche e soprattutto per i costi di riscaldamento).

Supponiamo che ci sia questo superamento del contratto nazionale, e che quindi ci sia una rimodulazione a livello locale delle retribuzioni. A questo punto il mio stipendio crescerà e quello dei lavoratori meridionali rimarrà invariato, o il mio stipendio rimarrà invariato e diminuirà quello dei lavoratori meridionali? Oppure, non essendoci più il minimo retributivo, caleranno entrambi, magari in misura diversa? Perché qui in Italia la fregatura è sempre dietro l'angolo, e anche partendo dalle migliori intenzioni si raggiungono poi risultati peggiorativi.

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