No ai pifferai che ci raccontano un’indolore uscita dall’euro

Le tesi che smentiscono Münchau, secondo cui l'Italia non cresce perché è nella moneta unica

di Francesco Forte | 21 Novembre 2015 Foglio

L’articolo di Wolfgang Münchau sul Financial Times in cui il noto editorialista sostiene che l’Italia non cresce perché sta nell’euro zona e che le converrebbe uscirne per risolvere i suoi problemi non mi pare stia in piedi. Infatti la Banca centrale europea (Bce), che pratica il Quantitative easing, ha dichiarato che l’euro è irreversibile e ha comprato e compra enormi quantità di titoli italiani. Se uscissimo dall’euro con il bilancio in deficit svalutando la nostra moneta avremmo un enorme debito in euro con la Bce, da pagare in moneta deprezzata. La svalutazione del cambio serve a ridurre i salari. Il rimedio, dunque, c’è, senza uscire dall’euro: stabilire che i salari possono essere contrattati a livello aziendale, senza vincolo nei contratti nazionali.

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A questo punto, recuperata una maggior crescita grazie al commercio estero e il conseguente quasi pareggio del bilancio, saremmo teoricamente liberi di restare oppure uscire dall’euro. A parte la complicazione del nostro oro conferito alla Bce, che non è affatto piccola, il paradosso è che può uscire dall’euro chi rispetta le regole del bilancio, che esso stesso comporta, non viceversa. Münchau inoltre fa un grosso sbaglio o prende un abbaglio circa il sistema bancario italiano. Non è vero che esso sia “marcio” (“rotten”, in inglese) perché le sofferenze bancarie sono il 10 per cento dei crediti verso la clientela. Infatti per valutare la solidità di una banca occorre innanzitutto considerare il rapporto fra i suoi parametri patrimoniali e le esposizioni. Quasi tutte le banche italiane hanno parametri adeguati per reggere alle loro sofferenze, in base a stress test severi che molte altre banche europee, comprese quelle inglesi, non sarebbero in grado di reggere se si includesse il comparto trading nei suddetti test. Va aggiunto che queste sofferenze potrebbero essere ridotte a una misura modesta se si varasse una bad bank, con una limitata sovvenzione pubblica. Ossia un intervento a favore delle banche di natura anticiclica, soprattutto di entità molto minore di quelli adottati quando esplose la crisi bancaria mondiale, da cui le banche italiane rimasero pressoché immuni. Infine è infondata la tesi per cui l’abrogazione della Tasi sulla abitazione principale sia una mera misura populista, escogitata da Berlusconi per prendere voti che Renzi fa male a copiare. E non è neppure vero che l’abrogazione di questo tributo non serva alla crescita economica.

 

Il prelievo di esso su 18 milioni di contribuenti rende 3,8 miliardi, cioè 210 euro a famiglia, il che vuol dire che molte famiglie versano 100 euro o meno, in due rate, con un’operazione complicata dal fatto che le aliquote variano ogni anno, e sono diverse nei vari casi. Il “tributicolo” non è né semplice, né certo e il costo d’esazione è sproporzionato al gettito. Anche la tesi di “fiscal policy” – mania keynesiana di cui è malato anche Münchau – dell’Unione europea e dell’Ocse, secondo cui le imposte sugli immobili sarebbero “buone” per la crescita economica e la loro abrogazione sarebbe sbagliata, è priva di fondamento. Un’elevata pressione tributaria danneggia la crescita, sicché l’abrogazione di un qualsiasi tributo, è benefica per essa. Lo è di più, se finanziata con riduzione di spesa corrente, di meno – nella prospettiva di medio-lungo termine – se finanziata in deficit, in modo da far salire il rapporto tra debito e pil, perché non genera una spinta sul pil tale da neutralizzare il peso sul pil del nuovo debito. Non è sbagliato togliere un tributo “cattivo”, semmai è sbagliato non tagliare abbastanza le spese correnti.

Categoria Economia

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