L’Italia che non sa dire rischio

Dietro i crac bancari, il ruolo frenante delle Fondazioni e la poca concorrenza sugli investimenti

di Carlo Milani | 11 Dicembre 2015 ore 19:42

Il recente salvataggio di quattro istituti di credito ha sollevato un acceso dibattito tra Banca d’Italia e Commissione europea. Quest’ultima è accusata dalla Banca centrale di aver ostacolato soluzioni alternative che attraverso il Fondo di tutela dei depositi avrebbero permesso di non intaccare le passività bancarie. Nella stessa direzione vanno anche le rimostranze avanzate dall’Associazione bancaria italiana e dall’associazione che rappresenta le Fondazioni bancarie (Acri). In particolare le Fondazioni, principali azioniste delle banche coinvolte dal crac, confidavano che l’intervento del sistema bancario, a sua volta fortemente influenzato dalle stesse Fondazioni, avrebbe permesso di salvaguardare anche i loro interessi. Il fatto che la Commissione si sia opposta a una simile soluzione va giudicato quindi con favore: se si vuole evitare che in futuro si ripetano crac bancari è fondamentale far pagare le crisi a chi ha avuto le maggiori responsabilità in termini di mancato controllo, come appunto gli azionisti, avendo tra l’altro, in precedenza, tratto giovamento dell’eccessiva assunzione di rischi. Ieri la stessa Commissione, respingendo il parallelo con le “crisi umanitarie”, ha però fatto capire di essere favorevole all’ipotesi di un arbitrato affidato alla Consob per valutare caso per caso la situazione dei risparmiatori coinvolti.

ARTICOLI CORRELATI  Perché saranno i contribuenti a pagare il pasticcio sulle banche popolari  "Salva banche". Si salvi chi sa!  Senza “salvabanche” i danni dei bad banker sarebbero enormi

Sul piano di salvataggio coordinato dalla Banca d’Italia andrebbe fatta in ogni caso più luce. Quali caratteristiche hanno gli altri creditori delle quattro banche salvate? Quanto era esposto nel complesso il sistema bancario, e quindi quanto del salvataggio è servito a evitare ulteriori perdite? Queste domande necessiterebbero di una risposta. La trasparenza nei piani di salvataggio è infatti un requisito fondamentale se si vuole evitare, da un lato, di generare il panico in alcune tipologie di investitori (quali gli obbligazionisti subordinati), considerato che già nelle ultime ore si è intensificata la tensione sul mercato dei bond bancari italiani, con abbassamento dei prezzi e innalzamento dei rendimenti. Dall’altro lato occorre evitare di determinare un senso di sicurezza verso altre forme di investimento. Quest’ultimo aspetto si ricollega a un’altra critica sollevata dalla Commissione, ovvero l’eccessiva diffusione di strumenti rischiosi e opachi presso i piccoli risparmiatori. Al riguardo bisogna ricordare come il possesso di obbligazioni bancarie da parte delle famiglie sia un fenomeno tutto italiano. In un’analisi condotta da Giuseppe Lusignani dell’Università di Bologna, emerge come i bond bancari pesassero, subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria, per oltre il 10 per cento del totale delle attività finanziarie delle famiglie italiane, contro l’1 per cento della Spagna e lo zero virgola di Regno Unito e Francia.

Monopolio bancario sui prodotti finanziari

L’eccessivo investimento in obbligazioni bancarie in Italia è spiegato essenzialmente da due fattori. Il primo è la generale scarsa cultura finanziaria degli italiani che, come recentemente certificato dall’Ocse (e riportato su queste colonne negli scorsi giorni), mostrano, già a partire dalla scuola, forti deficit nella materie economico-finanziarie. La scarsa conoscenza induce i risparmiatori ad affidarsi, quasi ciecamente, a terzi soggetti per prendere le loro decisioni finanziarie. E qui sta il secondo problema: la rete distributiva di prodotti finanziari è controllata quasi completamente dal sistema bancario, da cui scaturisce un evidente conflitto di interessi. In uno studio condotto da alcuni ricercatori della Consob, si rileva che il rendimento offerto dalle obbligazioni bancarie, a parità di condizioni (per esempio la loro durata), è mediamente inferiore a quello dei titoli di stato, strumento certamente meno rischioso dei titoli bancari. In definitiva, una rete di vendita non indipendente sarà indotta a fare più l’interesse della banca piuttosto che quello del risparmiatore, minando però a lungo andare il rapporto di fiducia tra banca e cliente. Purtroppo né il vigilante né il legislatore hanno favorito in questi anni la nascita di una vera consulenza finanziaria indipendente. Al riguardo è interessante notare come nell’attuale dibattito parlamentare si stia proprio discutendo di riformare l’albo dei promotori finanziari, ma la linea che sta emergendo non sembra essere quella di favorire la trasparenza e l’indipendenza della consulenza, quanto invece quella di cercare di mantenere lo status quo del sistema bancario nazionale.

Carlo Milani è economista presso il Centro Europa Ricerche (CER)

Categoria Ecinomia

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata