Siamo un paese che beve petrolio ma non vuole più estrarlo

Il paradosso dell’Italia, ammalata di ambientalismo à la Cop21, che vieta (di nuovo) le perforazioni. Appunti per il governo

di Davide Tabarelli | 18 Dicembre 2015 ore 10:06 Foglio

Che il governo se ne sia ricordato è già positivo. E’ il documento di programmazione energetica, la Strategia energetica nazionale che, ha detto, necessita di una revisione dopo l’accordo di Parigi di sabato scorso. Non si sa bene a cosa stia pensando l’esecutivo, certo è che la decisione di vietare, in via definitiva, le piattaforme petrolifere entro i 22 chilometri dalle coste italiane contraddice quanto richiesto dalla Sen. Tutti i nostri documenti di politica economica dall’Unità a oggi che si sono occupati di energia hanno sempre puntato a sfruttare le risorse nazionali che, per molto tempo, sono state soprattutto quelle che oggi chiamiamo rinnovabili, la legna e soprattutto l’idroelettrico, il carbone bianco. Le ragioni sono ovvie, visto che importiamo quasi l’80 per cento dell’energia di cui abbiamo bisogno e questa è per il 60 per cento gas e petrolio.

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 Siamo in assoluto il paese più motorizzato al mondo, secondi solo agli Stati Uniti per quanto riguarda le auto, quasi 600 ogni mille persone, in totale 35 milioni, ma se teniamo conto dei 10 milioni di motorini, superiamo tutti. Passione per il motore, conformazione del territorio, voglia di mobilità, importanza del turismo, politiche a favore dell’auto, spiegano il nostro primato. Uno dei pochi vagiti di ripresa giunge dai consumi di petrolio che, nei primi 11 mesi del 2015, sono aumentati del 3 per cento. L’Italia è un paese che ancora consuma 60 milioni di tonnellate di petrolio all’anno, 1,1 milioni di barili al giorno, nella forma di prodotti, 190 milioni di litri al giorno, circa 2.200 litri al secondo. Chi non ci crede si fermi e ascolti il rumore che viene dalla strada, oppure, chi è nel silenzio della campagna, vada a vedere i contadini cosa usano per fare andare i trattori o per concimare la terra. Il governo ha dovuto darla vinta ai promotori del referendum, le regioni del sud, ostaggio dei no triv, il che significa che fare le piattaforme causa danni certi all’ambiente. Questo è prima di tutto un insulto alla gente che fa le piattaforme, persone che lavorano nelle nostre università o nei nostri istituti tecnici (e che tutto il mondo ci invidia). Le nostre aziende del petrolio, prima di tutto Eni e Saipem, sono dei gioielli della tecnologia della ricerca ed estrazione del petrolio e del gas, proprio in mare. Ma poi se le vietiamo entro i 22 chilometri perché sono pericolose, cosa vuole dire, nell’ottica ambientalista, che oltre quel limite diventano sicure? E poi gli impianti a terra?

In sostanza il governo così facendo avalla il concetto che sono pericolose e che pertanto non dovranno esistere nel rispetto della madre di tutti i dinieghi ambientali, il principio di precauzione. Nel frattempo tutti, anche gli ambientalisti, continueranno ad andare in macchina o in aereo, ma, attenzione, solo per poco, perché, come secondo loro recita l’accordo di Parigi, il cambiamento è dietro l’angolo. In realtà il protocollo all’articolo 2 dice – testualmente – che il suo scopo “è di rafforzare la risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico in un contesto di sviluppo sostenibile e di sforzi per estirpare la povertà”. E’ una minaccia il cambiamento, non una certezza. E’ dagli anni 70, dalle crisi energetiche, che l’affrancamento dai fossili e dal petrolio è solo questione di pochi anni. Il protocollo di Kyoto del 1997, simile a quello parigino della scorsa settimana, richiedeva una riduzione delle emissioni del 5 per cento rispetto ai livelli del 1990, ma invece sono aumentate del 30. Nel mondo i fossili contano ancora oggi, come negli anni 70, per l’80 per cento dei consumi di energia che crescono proprio perché la prima urgenza è fare uscire dalla miseria miliardi di persone; stato di miseria che riguardava anche noi e da cui siamo usciti anche grazie alle nostre industrie del petrolio. Tutti vogliamo un futuro con più energia dal sole, ma questo non si realizza cacciando le poche industrie che ci rimangono.

 Davide Tabarelli è presidente di Nomisma Energia

Categoria Economia

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