11 settembre 2001: Siems racconta gli errori americani

Finte confessioni, manipolazione pubbliche, segreti inconfessabili. Perché la guerra al terrore Usa non ha funzionato. Parla l'editore di Guantanamo's Diary.

di Gea Scancarello | 11 Settembre 2016 Lettera 43

Pochi minuti dopo la fine della nostra conversazione, Larry Siems salirà su un palco e racconterà – ancora una volta, l'ennesima, ma con lo stesso sgomento della prima – come un uomo qualunque possa lasciare casa propria dopo una normale giornata di lavoro, convinto di andare in commissariato per un interrogatorio di routine, ed essere invece caricato su un aereo segreto, picchiato selvaggiamente, spostato in varie carceri mediorientali fino a trovarsi incatenato mani e piedi dentro all’orrore di Guantanamo, dall’altra parte del mondo.

E come quell'uomo sia costretto ad attendere cinque anni, senza alcuna imputazione, prima di poter parlare con un avvocato, tra torture quotidiane, violenze sessuali, umiliazioni di ogni genere. E poi altri otto, anche quando aguzzini e carcerieri sanno perfettamente che la ragione per cui è stato portato lì dentro è falsa: non è un terrorista, non ha alcun legame con gli attentatori dell’11 Settembre, non frequenta membri di al Qaeda.

La storia è quella di Mohamedou Slahi, (allora) giovane della Mauritania e autore inconsapevole di Guantanamo Diary (in italiano 12 anni a Guantanamo, edito da Piemme): 400 pagine di appunti giornalieri, dettagliati e persino ironici, scritti per restare umano dentro alla meno umana delle prigioni.

15 ANNI IN DETENZIONE ILLEGALE. Il governo americano li ha requisiti e secretati per anni, finché gli avvocati di Slahi hanno vinto la battaglia legale, sono riusciti a ottenerli e a passarli a Larry Siems, giornalista, attivista dei diritti umani ed ex direttore del Freedom to Write and International Programs del Pen, l'associazione degli scrittori americani per la libertà d'espressione.

Siems, con la consapevolezza dell’enormità del compito che gli era stato affidato, li ha editati e trasformati in un libro uscito nel 2015, che Slahi non ha mai potuto vedere: è infatti ancora rinchiuso a Guantanamo.

Il quindicesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, e della cosiddetta lotta senza quartiere al terrorismo, coincide con il 15esimo anno della sua detenzione illegale.

Nel luglio scorso, un giudice ha stabilito che potrebbe essere tra i prossimi rilasciati e, nell’attesa che succeda, Siems e il fratello di Slahi girano raccontando a un’Europa sconvolta dalla nuova ondata di attentati come e perché non cedere agli errori e agli orrori di altre Guantanamo.

«La violazione dei diritti umani, la tortura, il rinunciare ai nostri valori fondanti in nome di una presunta sicurezza è un danno che facciamo a noi stessi grande almeno quanto quello che ci fanno i foreign fighter o chi tortura a Raqqa», spiega Siems.

Larry Siems, co-autore del libro 12 anni a Guantanamo.

DOMANDA. La sensazione però è che, al di là della retorica ufficiale, l'urgenza sia trovare una qualsiasi soluzione per arginare il terrorismo, più che il rispetto dei valori fondanti.

RISPOSTA. Potrei rispondere con la citazione di Benjamin Franklin che anche Mohamedou propone nel libro: «Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza».

D. Eppure è stata la strada scelta proprio dagli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001, in nome della «guerra al terrore».

R. La reazione americana è stata sostanzialmente questa: prendi le tue certezze, i tuoi valori, le cose su cui hai fondato la tua storia e mettile da parte. Le extraordinary rendition, la sorveglianza di massa, le detenzioni preventive di cui Guantanamo è il più terribile esempio sono una sospensione totale della cornice legale e delle consapevolezze umane e giuridiche costruite in secoli.

D. Nonché una violazione di trattati internazionali, per esempio quello contro la tortura sui prigioneri di guerra.

R. Abbiamo torturato come fanno i terroristi a Raqqa, come fanno i regimi che hanno paura e vogliono una risposta qualsiasi subito: non giusta, non vera, ma una risposta. È un compromesso che non andava accettato. Tornare indietro poi è molto difficile.

D. Un compromesso utile, almeno?

R. Prendiamo il caso della sorveglianza di massa. Dicono quelli che sono incaricati di scavare nelle informazioni raccolte che l'accumulo mostruoso di dati sia controproducente, che rende il loro lavoro più difficile, che è più complicato isolare quello che è realmente importante.

D. E nella prevenzione del terrorismo? C'è un fil rouge tra l'11 settembre, Guantanamo e i recenti attentati?

R. Non è facile rispondere, ma pensiamo agli ostaggi dell'Isis con le stesse tute arancioni dei detenuti di Guatanamo: il segnale è chiaro. O prendiamo lo studio del Senato Usa sul programma di detenzione e di interrogatori della Cia: ha rivelato che le confessioni estorte ai detenuti sono state svianti per l'antiterrorismo. Poi c'è la consapevolezza che Al Baghdadi, il capo dell'Isis, fu detenuto nel carcere 'speciale' di Abu Ghraib...

D. I programmi speciali non erano poi così speciali, insomma.

R. Le nostre detenzioni illegali e le nostre violenze hanno minato l'impegno degli Stati Uniti nei confronti del rispetto della dignità e dei diritti umani. E nel momento in cui abbiamo consentito ad altri di questionare la nostra serietà nei confronti della libertà abbiamo contribuito a creare una animosità generale.

D. Eppure, nell'Europa sconvolta dagli attentati dell'Isis, sono molti a pensare che ci vorrebbe una Guantanamo anche qui per prevenire i rischi.

R. Non so ovviamente quale sia il bilanciamento perfetto tra libertà e sicurezza, ma penso che il libro di Mohamedou riporti la questione alla sua essenza. Stiamo parlando di individui, di persone, di diritti umani e civili di base: i problemi del terrorismo non si risolvono prendendo un sacco di gente e consentendo ogni genere di abusi.

D. Qualcuno risponderebbe che anche non farsi ammazzare in un teatro parigino o lungo la passeggiata di Nizza è un diritto.

R. Questa è un'argomentazione consumata, vecchia, già morta. È frutto di una manipolazione, simile a quella per cui in America ci hanno convinto che i 798 detenuti a Guantanamo fossero le persone peggiori, le più cattive del mondo, l'incarnazione del male. I politici si sono fatti forti maltrattando gente che non hanno saputo riconoscere. Infatti la maggior parte di queste persone sono poi risultate totalmente estranee ai fatti: nel frattempo però non solo sono state distrutte le loro vite, ma anche quella delle loro famiglie, minando pericolosamente un intero tessuto sociale.

D. È per via di questa manipolazione che negli Usa non c'è mai stato un movimento davvero serio contro Guantanamo e certe sospensioni della legalità?

R. Penso che sia un insieme di fattori. A partire dalla segretezza: non è un caso che quella prigione sia stata realizzata a Cuba. L'hanno messa lontana, inaccessibile, tutto quello che succedeva era impossibile da sapere. Con il tempo alcune cose sono venute fuori, il diario di Mohamedou in questo senso ha aiutato moltissimo, ma penso che almeno quattro quinti delle cose rilevate nello studio sui programmi della Cia non saranno mai rese note.

D. Il libro di Mohamedou Shali, che lei ha editato, è pieno di omissis e di parti secretate. I nomi di certi aguzzini e responsabili però prima o poi verranno fuori. Cosa succederà allora? Sarà come quando i funzionari nazisti dissero che si limitavano a eseguire ordini?

R. Questo è un ottimo punto. Io penso che Mohamedou, e molti altri detenuti, siano rimasti dentro tutto questo tempo proprio perché non facciano i nomi: Guantano oggi esiste non per proteggerci dal terrorismo, ma per mantenere segreti. E mi amareggia sapere il danno fatto non solo ai sequestrati, ma anche agli americani: violando la loro comprensione di quello che è giusto e di quello che non lo è.

D. Il giudice ha stabilito di recente che Mohamedou potrà forse uscire. Cosa succede una volta fuori?

R. Questa è una cosa strana, perché a persone a cui è stato tolto tutto non resta che una cosa: il perdono. Molti ex detenuti hanno dimostrato questa attitudine, dopo aver avuto una capacità incredibile ed eroica di resistenza. Nonostante le loro famiglie abbiano subito condizioni di stress estremo e siano state caricate di uno stigma che ha portato alla lacerazione del tessuto sociale che stava loro intorno. Sarebbe giusto che gli Stati Uniti – ai quali nessuno comunque potrà chiedere i danni – chiedessero almeno scusa, che si prendessero la propria responsabilità nell'errore immenso che sono stati Guantanamo e tutti i programmi speciali inaugurati dopo l'11 settembre.

D. Invece?

R. Invece non c'è alcuna accountability, alcuna assunzione di responsabiltà. E il fatto che gli americani non abbiano mai pubblicamente ammesso l'errore e non abbiamo mai chiesto scusa, aumenta la percezione distorta degli europei, che ora sono tentati di imboccare soluzioni simili.

D. Obama aveva promesso che avrebbe chiuso Guantanamo, e non l'ha fatto. E la sua amministrazione ha invece confermato alcuni programmi.

R. Ci sono molte lotte, nell'Amministrazione, tra la Cia e il Pentagono, nel Congresso stesso. Penso che questi scontri abbiano impedito al presidente di chiudere Guantanamo come aveva detto. Ma lo ammiro molto, perché ha comunque cercato delle strade  per riuscire a far uscire chi non doveva trovarsi lì. Ha ordinato udienze, revisione dei casi, ha stretto accordi con i Paesi perché i detenuti potessero tornare a casa. E anche così, pur nella consapevolezza acclarata che si stavano liberando innocenti detenuti illegalmente per oltre un decennio, a ogni ondata di rilasci i repubblicani tuonavano: «Stiamo rimettendo in libertà pericolosi terroristi...».

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