Russia-Usa, le colpe occidentali dietro l'escalation

L'idillio iniziale tra Putin e Occidente. Poi le ingerenze di Washington in Georgia. E quelle in Ucraina. Fino ai venti di cyber war. Così è risalita la tensione.

di Stefano Grazioli | 15 Ottobre 2016 Lettera43

Quando è cominciata la Nuova guerra fredda?

Chi ha acceso la miccia che oggi sta portando Russia e Stati Uniti indietro di quasi 30 anni, al clima di tensione che ha caratterizzato i rapporti tra le due superpotenze dalla fine della Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino?

E c'è davvero il rischio che si rivivano episodi come quello della crisi di Cuba che per 13 giorni fece tremare il mondo?

QUESTIONE DI PROSPETTIVA. Se al momento è difficile prevedere uno scontro atomico tra Mosca e Washington, nonostante le diverse frizioni (dall'Ucraina alla Siria) e le provocazioni retoriche o meno su entrambi i fronti (dalle ingerenze degli uni e degli altri, tra propaganda e guerre ibride fino ai venti di cyber war), più facile è ricostruire quello che è successo negli ultimi 15 anni, seguendo le orme di colui che è considerato in Occidente il responsabile di un'escalation che sta ridisegnando la scacchiera internazionale sul modello di quella antecedente al 1989: Vladimir Putin.

Vista da Ovest, la questione è semplice: la Russia è la causa di tutti i pericoli odierni perché al Cremlino siede uno zar che negli ultimi tre lustri non ha fatto altro che portare Mosca in rotta di collisione con Washington e Bruxelles, le quali hanno ricevuto in risposta sonori schiaffi alle loro mani apparentemente tese.

La realtà è però un po' più complessa e il ruolo di Stati Uniti ed Europa è tutt'altro che secondario, dato che la politica estera russa è diretta dal Cremlino anche in reazione a quello che avviene a Ovest.

SOLDATI NATO AL CONFINE. Se l'Occidente è stato sorpreso con l'arrivo di Putin nel 2000 e non si aspettava che la Russia si risollevasse, da potenza regionale a global player, dopo il disastroso decennio della transizione postcomunista sotto Boris Eltsin, all'inizio degli Anni 2000 i rapporti erano più che distesi.

L'11 settembre 2001 aveva riavvicinato Cremlino e Casa Bianca nell'ottica della lotta al terrorismo internazionale, Putin in un discorso al Bundestag di Berlino aveva seppellito definitivamente la Guerra fredda, sottolineando la necessità di agganciare Russia ed Europa, allargando quella Casa comune le cui basi erano state costruite da Helmut Kohl e Mikhail Gorbaciov con la caduta della cortina di ferro.

L'idillio, dopo la costituzione addirittura del Consiglio Russia-Nato nel 2002, è finito ben presto, in conseguenza non tanto di una Russia ancora imbambolata dall'anarchia eltsiniana, quanto delle mosse dell'amministrazione americana guidata prima da Bill Clinton e poi da George Bush: dalla guerra in Iraq, cominciata con le false ampolle di antrace presentate dal generale Colin Powell alle Nazioni unite (2003), alle rivoluzioni colorate finanziate in Georgia (2003) e Ucraina (2004), fino all'allargamento della Nato verso Est (1999-2004).

Il 14 ottobre, l'Alleanza ha annunciato lo schieramento di 4 mila soldati (140 italiani), a partire dal 2018, al confine russo. Una decisione definita «distruttiva» da Mosca.

Le ingerenze degli Stati Uniti nel Caucaso

Mikhail Saakashvili, ex presidente della Georgia e ora consigliere di Petro Poroshenko.

(© GettyImages) Mikhail Saakashvili, ex presidente della Georgia e ora consigliere di Petro Poroshenko.

Negli anni Putin ha assistito senza batter ciglio a quelle che sono state considerate, e parzialmente non a torto, azioni aggressive e unilaterali, contrarie a quei principi sui quali si sarebbe dovuto costruire il nuovo ordine mondiale multipolare.

Nel suo storico discorso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007, lo zar non le ha mandate a dire, accusando senza mezzi termini gli Stati Uniti, ancora sotto Bush junior, di non tener conto della Russia, considerandola non un partner di egual valore, ma alla stregua di uno zerbino.

L'INTERVENTO IN GEORGIA. Solo un anno più tardi, nell'estate del 2008, il paladino dei repubblicani americani Mikhail Saakashvili, presidente in Georgia, ha scatenato con il benestare della Casa Bianca la guerra in Ossezia e Abcasia, che invece di riportare sotto il controllo di Tbilisi le due repubbliche indipendentiste ha aperto le porte alla reazione di Mosca.

La linea rossa tracciata da Putin con l'azione militare nel Caucaso è stata ignorata nel 2013-14 in Ucraina, quando l'Occidente ha sostenuto le proteste contro Viktor Yanukovich e avallato il cambio di regime a Kiev, giudicato un colpo di Stato a Mosca.

Anche in questo caso, la reazione russa, nello specifico con l'annessione della Crimea, non è stata altro che il pan per focaccia cucinato dal Cremlino.

LE MICCE DI UCRAINA E SIRIA. Il conflitto nel Donbass, mentre da una parte le prime cartucce americane, democratiche, sono state bruciate con il siluramento del primo premier post Maidan Arseni Yatseniuk, e le seconde con Saakashvili sono ancora in canna a Odessa, dove l'ex presidente caro ai conservatori americani è finito a fare il governatore, è solo il proseguimento della proxy war che pone di fronte Russia e Usa sulla carta che arriva sino in Siria.

Il dossier ucraino e quello siriano sono difficili da districare e contengono entrambi l'alto rischio di una degenerazione che allarghi ancora di più il fossato tra Mosca e Washington.

Da qui allo scontro nucleare ce ne passa, al di là della propaganda e della demonizzazioni reciproche. Il caso del nucleare iraniano, risolto lo scorso anno grazie alla collaborazione tra tutti gli attori in campo, Russia compresa e imprescindibile, mostra che gli spazi di riavvicinamento posso essere comunque trovati.

Resta da vedere se Putin da una parte e il successore di Barack Obama dall'altra vorranno buttare acqua o benzina sul fuoco.

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