American devolution

Con la vittoria di Donald Trump si afferma un nuovo ordine, quello post liberale. Il testacoda ideologico dei manifestanti che gridano “Not my president”

di Mattia Ferraresi | 12 Novembre 2016 ore 06:01

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I manifestanti che protestano contro l’elezione democratica di Donald Trump sono l’immagine di un epocale testacoda ideologico. La piazza è per definizione infiammabile ed emotiva, ma opporsi a un presidente che non si è nemmeno insediato significa manifestare contro la democrazia stessa, oppure contro i “deplorables” che non hanno votato il candidato della parte giusta della storia. Lo slogan “Not my president” pende più a favore della seconda ipotesi: lui è il loro presidente – il presidente dei bianchi-trogloditi-fascisti-sessisti – non il nostro, è il rappresentante del clan avversario, che non proprio incidentalmente incarna tutti gli orrori della storia. Il manifestare rende evidente che anche questi giovani di sinistra, che nuotano nei precetti della democrazia liberale e pluralista come pesci nell’acqua, in realtà trafficano con la tanto deplorata “identity politics”. Somigliano agli avversari che criticano e che democraticamente rispettano, anche se quando le circostanze storiche lo richiedono il rispetto può essere sospeso, e così ci si ritrova nella complicata posizione di criticare il sistema che si è difeso fino a farne un idolo. L’esito di un processo democratico può essere antidemocratico, a quanto pare.

Molte energie in questa campagna sono state spese per convincere gli elettori che Trump non era un avversario normale, non meritava il trattamento rispettoso ed equo che volentieri si sarebbe accordato a un Marco Rubio e perfino a un Ted Cruz, ma quel tycoon iperbolico era fuori dal perimetro della decenza, del decoro, del buonsenso, della civiltà. Era un irredimibile che non raggiungeva gli standard morali per ottenere la protezione delle istituzioni democratiche. Se da un lato tutto questo dimostra che aveva ragione William Buckley, quando diceva che i liberal rispettano le opinioni altrui, ma non riescono proprio a credere che gli altri abbiano opinioni diverse dalle loro, dall’altro dimostra anche che prima di lui aveva ragione Platone, il quale nel 380 a.C. aveva previsto gli assembramenti indignati sotto la Trump Tower. L’aporia del sistema democratico era già evidente allora. E’ stata la visione progressista della storia introdotta dalla modernità con prometeica assertività a offrire l’illusione che tutti questi fossero soltanto incidenti di percorso, niente che il tempo, la disciplina, il raffinamento delle istituzioni e l’estensione dei diritti non avrebbero potuto sanare.

L’illusione era talmente sottile e difficile da intercettare che si è preso a sostenere che la democrazia liberale non era perfetta, ma aveva gli strumenti per correggersi, disponeva degli anticorpi per debellare le patologie che l’avrebbero aggredita. E’ stato così che la visione del mondo liberale è diventata non un’ipotesi ma una premessa implicita, non un sistema fra gli altri sistemi possibili ma l’unica cornice filosofica ammissibile, tanto più convincente ed efficace quanto più era in grado di presentarsi come invisibile e neutrale. Il contenuto dell’identità liberale è una non-identità, è un supermercato pluralista dove ogni individuo può prendere dagli scaffali le opzioni di vita che preferisce. Per essere veramente efficace e persuasiva, l’ideologia liberale non doveva presentarsi come un’ideologia, ma come lo sfondo naturale della storia.

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 I ragazzi che protestano per la regolare elezione di un presidente nel contesto di una società liberale regolata da leggi certe, benedetta da diritti individuali a profusione e resa prospera da un capitalismo che sa correggere i suoi errori, è un’istantanea dal mondo post liberale. In fondo, non è che una reazione all’irrompere sulla scena di un presidente post liberale, un politico antipolitico che conquista un formidabile e inaspettato successo mettendo sotto processo, confusamente quanto si vuole, alcune certezze fondamentali che l’ordine liberale aveva reso ovvie e necessarie come l’aria, dal libero commercio nel regno dell’economia, all’internazionalismo in quello della politica estera fino alle tesi sulla “fine della storia”, talmente radicate nell’inconscio della classe dirigente di entrambi i partiti americani da scomparire.

Le promesse antropologiche su cui il sistema liberale poggia sono chiare: l’individuo come essere autonomo e autosufficiente, agente unico della storia, la libertà come pura negatività e assenza di coazione, i diritti intesi come naturale bacino di espansione dei desideri individuali, la relativizzazione di qualunque valore e significato, tutto ridotto a un sistema di preferenze che si equivalgono, il pluralismo inteso come sorridente dittatura del relativismo, per usare l’espressione dell’allora cardinale Ratzinger, gli afflati spirituali, religiosi e metafisici perfettamente accettati ma nella misura in cui non fanno capolino fuori dalla coscienza e dalla sagrestia. “Cosa diavolo è l’acqua?”, domanda il giovane pesce nella storiella usata da David Foster Wallace in un famoso discorso ai laureati del Kenyon College. In un certo senso, l’elezione di Trump è il momento in cui quel giovane pesce si rende conto dell’esistenza dell’acqua.

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Quelle sacche di elettori di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania che hanno fatto pendere la votazione verso Trump sono quelle che negli anni Ottanta hanno votato Reagan, nonostante venissero da una tradizione democratica e sindacalizzata, ma sono anche gli stessi che hanno votato Obama per due volte: “In poche parole, sono elettori non ideologici che votano guardando alle loro condizioni, anche se i giornali li hanno dipinti come primitivi filonazisti, sessisti e nativisti dediti alla purificazione della razza. E’ ben strano che abbiano votato per Obama, ma questo è meglio non dirlo perché contraddice il pregiudizio diffuso. Ad ogni modo, il punto è che questi elettori della rust belt hanno mostrato che la storia è più complicata delle nostre semplificazioni”.

Ma c’è un altro passo da fare per afferrare la profondità della questione economica: “Non ci sono risposte politiche a problemi culturali: lo diciamo da una vita da queste parti. Il problema economico, soprattutto nella rust belt, è un problema culturale. Perché la competizione cinese nella manifattura ci ha messo in ginocchio? Per l’inevitabile processo della globalizzazione? Per le forze irresistibili dei mercati aperti e della società connessa? No. Perché abbiamo smesso di produrre.

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Nash spiega al Foglio che il suo brand populista è una sintesi di due tradizioni: “In America ci sono due tradizioni populiste. Una, diciamo di sinistra, ha come obiettivo Wall Street e le grandi corporation. Un’altra, di destra, non è contro la ‘big money’ ma contro il ‘big government’.

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Che ne siano consapevoli o meno, gli elettori di Trump hanno votato per il nuovo ordine post liberale, ed è appena naturale, benché contraddittorio, che i difensori del consenso liberale urlino “Not my president”.

Categoria estero

Commenti

Raffaella Conti • 3 ore fa

Tutti coloro che manifastano contro "big money" o "big government" diventano immediatamente favorevoli quando - anche in virtù delle loro proteste - ne vengono coinvolti personalmente, con tutti i vantaggi del caso.

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Mario Mauro • 8 ore fa

Caro Ferraresi, nel suo intento chiarificatore, perfettamente riuscito, c'è il ricorrente equivoco di applicare al movimento liberal americano il termine liberalismo, che equivale a chiamare liberali quei giovanotti che vanno in piazza a berciare contro Trump.

Sappiamo, anche se non in moltissimi,ma come lo sa Lei, che il liberalismo nato in Europa attraverso il lungo travaglio filosofico e culturale iniziato nel XVIII secolo, e che sarebbe poi divenuto quello di Spencer, Von Hayek, Einaudi etc, è, come concetto e pratica, agli antipodi del movimento liberal americano, divenuto man mano, sempre di più un'ideologia coercitiva, sempre più chiaramente antiliberale.

Mi perdoni se faccio questo commento, superfluo certamente anche per i lettori. Ma che vuol farci? Il mio è un automatisimo, come ogni volta che sento definire liberali i professori e gli studenti che hanno imposto il pol cor nelle università.

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