Quanta Europa può tollerare l’Europa?*
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La costruzione dell’Europa si è basata fin dall’inizio su una teoria “funzionalista” secondo cui all’integrazione economica sarebbe seguita quella politica. Ha funzionato fino alla scelta di creare il mercato unico. Ora rappresenta una sfasatura insostenibile
23.03.17 Dani Rodrik da lavoceinfo
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Sessanta anni di Comunità europea
L’Unione Europea celebra in questo mese il sessantesimo anniversario del Trattato di Roma, con il quale venne istituita la Comunità economica europea. I motivi per festeggiare sono indubbiamente tanti. Dopo secoli di guerre, sconvolgimenti politici e uccisioni di massa, per l’Europa si è aperto un periodo di pace e di democrazia. L’Ue ha accolto al suo interno undici paesi dell’ex blocco sovietico, guidando con successo la loro transizione verso l’era post comunista. E, in un’epoca di disuguaglianze, gli stati membri vantano il più basso divario reddituale rispetto a qualunque altro paese del mondo.
Oggi, però, l’Unione è intrappolata in una profonda crisi esistenziale e il suo futuro appare alquanto incerto. I sintomi sono visibili ovunque: dalla Brexit agli intollerabili livelli di disoccupazione giovanile in Grecia e Spagna, dall’indebitamento e dalla stagnazione che affliggono l’Italia all’ascesa dei movimenti populisti, fino a una reazione di rifiuto nei confronti degli immigrati e dell’euro.
Per tutte queste ragioni, il libro bianco sul futuro dell’Europa del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker non poteva arrivare in un momento migliore. Juncker delinea cinque possibili percorsi: proseguire con l’agenda attuale, concentrarsi solo sul mercato unico, consentire un’Europa a più velocità, ridimensionare l’agenda, o puntare all’ambizioso obiettivo di un’integrazione omogenea e più completa.
Nella situazione attuale, Juncker non poteva esporsi più di così. Ciò non toglie, però, che il suo rapporto lasci delusi, poiché tralascia la sfida più importante che l’Ue dovrebbe affrontare e vincere.
Se si vuole che le democrazie europee tornino in salute, non può continuare a esserci una sfasatura tra l’integrazione economica e quella politica: o l’integrazione politica allunga il passo e raggiunge quella economica, oppure quest’ultima deve rallentare. Altrimenti, l’Ue resterà un organismo disfunzionale.
Di fronte a questa difficile scelta, c’è un’alta probabilità che gli stati membri assumano posizioni diverse lungo il continuum dell’integrazione politico-economica. Ciò significa che l’Europa deve sviluppare la flessibilità e i meccanismi istituzionali necessari per soddisfarle.
Il grande limite della strategia funzionalista
Sin dagli albori, la costruzione dell’Europa si è basata su una teoria “funzionalista” secondo cui all’integrazione economica sarebbe seguita quella politica.
All’inizio la strategia ha funzionato: l’integrazione economica restava un passo avanti rispetto all’integrazione politica, ma non troppo avanti. Poi, dopo gli anni Ottanta, l’Ue ha fatto un salto nel buio, adottando un’ambiziosa agenda del mercato unico che puntava a unificare le economie europee, indebolendo le politiche nazionali che intralciavano la libera circolazione non solo di beni, ma anche di servizi, persone e capitali. L’euro fu la logica prosecuzione di questo programma. Fu una sorta di iper-globalizzazione su scala europea.
La nuova agenda era trainata da molteplici fattori. Molti economisti e tecnocrati pensavano che i governi europei fossero diventati troppo interventisti e che una profonda integrazione economica e una moneta unica avrebbero disciplinato gli stati. In quest’ottica, lo squilibrio tra la fase economica e quella politica del processo d’integrazione rappresentava una caratteristica, non un difetto.
Molti politici riconobbero che lo squilibrio poteva creare problemi, ma diedero per scontato che il funzionalismo alla fine avrebbe aiutato e che, nel tempo, si sarebbero sviluppate le istituzioni politiche quasi federali necessarie per sostenere il mercato unico.
Un’alternativa c’era. L’Europa avrebbe potuto incoraggiare lo sviluppo di un modello sociale comune parallelamente all’integrazione economica, che avrebbe reso necessaria l’integrazione non solo dei mercati, ma anche delle politiche sociali, delle istituzioni del mercato del lavoro e delle disposizioni fiscali.
La diversità tra i modelli sociali in Europa, unitamente alla difficoltà di raggiungere un accordo su regole comuni, avrebbe posto un freno naturale al passo e all’estensione dell’integrazione.
Lungi dall’essere uno svantaggio, ciò avrebbe offerto un’utile misura correttiva per una velocità e un’ampiezza dell’integrazione più auspicabili. Il risultato avrebbe potuto essere un’Ue più piccola e più profondamente integrata nel complesso; oppure un’Ue con lo stesso numero di membri di oggi, ma molto meno ambiziosa in termini di portata economica.
Ormai potrebbe essere troppo tardi per tentare un’integrazione fiscale e politica dell’Ue. Meno di un europeo su cinque è favorevole alla cessione di poteri da parte degli stati-nazione che ne fanno parte.
Gli ottimisti diranno che ciò non dipende tanto da un’avversione in sé verso Bruxelles o Strasburgo, quanto dall’associazione del concetto di “più Europa” all’insistenza dei tecnocrati sul mercato unico e dall’assenza di un modello alternativo convincente. Forse i nuovi leader e le formazioni politiche emergenti riusciranno a elaborare un simile modello e a riaccendere l’entusiasmo per un progetto europeo riformato.
D’altro canto, i pessimisti sperano che, in qualche angolo nascosto dei corridoi del potere a Berlino e Parigi, economisti e avvocati stiano segretamente lavorando a un piano B da attuare il giorno in cui un allentamento dell’unione economica non potrà più essere rinviato.
* La versione originale di questo articolo, in inglese, si trova su Project Syndicate. Traduzione di Federica Frasca.
DANI RODRIK
Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale presso la John F. Kennedy School of Government dell’Università di Harvard, è l’autore di Economics Rules: The Rights and Wrongs of the Dismal Science (titolo italiano: Ragioni e torti dell’economia).
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P.PIERANGELINI 23/03/2017 alle 11:36 Rispondi
Apprezzo e stimo D.Rodrik di cui ho letto i libri e moltissimi articoli, sono d’accordo sull’analisi, purtroppo credo che la unica soluzione sia la disgregazione dell’area euro. Mentre in matematica in alcune operazioni si può invertire l’ordine dei fattori in economia e politica no, pertanto avendo fatto un unione monetaria prima di aver costruito le necessarie istituzioni si è commesso un grave errore che ci ha portato a questa situazione, aggravata dall’adozione d i politiche di austerità che hanno causati inutili e gravi sofferenze a molti ( vedi es Grecia). Visto che il paese dominante (Germania) è rientrato dai debiti delle sue banche e ha spostato l’export più verso aree extra euro non credo che avrà molto interesse a proseguire in questa unione. I nostri politici dovrebbero guardarsi bene dall’aderire a accordi di maggiore integrazione se non voglio peggiorare ulteriormente la de-industrializzazione del paese.
Savino 23/03/2017 alle 8:52 Rispondi
Quanto l'Europa può continuare ancora a tollerare le sciuperie dell'Italia, il suo debito pubblico, la sua evasione fiscale, la sua corruzione, la sua mentalità arretrata rispetto alla concorrenza?


