Rivalutazione del normale Hollande

Ha inventato Macron e gli ha lasciato strada, e non ha fatto tutto malaccio

di Giuliano Ferrara, 10 Maggio 2017 pubblicato da ilfoglio.it

François Hollande va decisamente rivalutato. Carla Bruni gli diede di “pinguino”, e la definizione ebbe il successo che meritava. Il fisico e la scarsa oratoria non hanno aiutato il presidente francese uscente. Fissato con l’idea di una presidenza normale, in un paese che vuole un Re repubblicano e all’interno di istituzioni che lo prefigurano e ne hanno bisogno, Hollande ha abbassato da subito lo status della presidenza nello stile, qui così importante, e paga con l’impopolarità innumerevoli gaffe nei rapporti con la stampa e l’opinione pubblica, dalla petulanza alle storielle sentimentali. Ha seguito lo schema di François Mitterrand, suo maestro, ma da allievo mediocre: i primi due anni a tassare, poi con Emmanuel Macron all’Economia riforme liberali in ritardo sul ritmo del quinquennato (prima erano sette gli anni di un presidente). Il quinquennat, odiosa trouvaille di quel burino del suo predecessore, il ridente e agitato Nicolas Sarkozy, complice un declinante Jacques Chirac (la V Repubblica non dovrebbe essere toccata, come le donne, nemmeno con un fiore).

Però Hollande ha “inventato” la carriera pubblica di Macron, prima portandoselo all’Eliseo come vicesegretario generale e consigliere, poi dandogli il palcoscenico adeguato al suo incipit teatrale di nuovo politico. Ha lasciato che il giovane si distaccasse senza risentimenti, fuori dalla logica frondista che stava travolgendo il Partito socialista, per fare una cosa inedita.

Non si è ripresentato alle elezioni, altra cosa senza precedenti nella storia repubblicana, e ha giocato il ruolo così difficile, in un mondo in cui pullulano i sore losers, del buon perdente. In politica estera è semplicemente uno che ha avuto ragione, nell’agosto del 2013 voleva intervenire in Siria, e fu il celebrato Barack Obama, con la complicità del Papa e di Putin, a impedirlo. Gli avessero dato retta, il mondo non sarebbe quel carnaio che è risultato dalla rinuncia ad agire dell’occidente. Ha condotto una buona e attiva politica africana, e ha temperato l’ardore di austerità del partner tedesco, senza dimenticarsi di dare una mano con duttilità e intelligenza alla Grecia di Tsipras disposta alle riforme per salvarsi nell’euro (una Grecia che perfino con il superfighetta de sinistra Varoufakis a sorpresa si è ritrovata tra i macronisti). Sul terrorismo è stato impeccabile nella strategia di sicurezza emergenziale, sebbene non abbia mai avuto il coraggio di integrare la piattaforma di convivenza con il diverso, anche religioso ed etnico, a un serio discorso di denuncia e di verità sull’islam politico e il suo prodotto jihadista. L’economia francese soffre di molti mali e debolezze, il primo dei quali è la collera immaginaria che ha perso le elezioni presidenziali per via di ragionevolezza, ma i fondamentali della produzione e della finanza che si trova davanti il nuovo presidente eletto sono migliori di quelli che Louis De Funès-Sarkozy aveva lasciato in eredità a Hollande. Il lavoro è un problema strutturale nazionale e mondiale, che dura da decenni, e che solo una cura liberale, capace di saltare le barricate a volo d’uccello, può correggere, proteggendo tutto quel che c’è da proteggere senza distruggere l’iniziativa d’impresa e la trasformazione tecnologica in corso. Sono affari di Macron, che promette di procedere per ordonnances, decreti, e di introdurre un nuovo statuto della contrattazione aziendale nel mercato del lavoro allo scopo di superare la barriera corporativa del vecchio sindacalismo di origine e timbro classista.

Con le legislative dell’11 giugno e del secondo turno, con il meccanismo delle triangolazioni o quadrangolare che ne risulterà, ci sarà in qualche misura un ritorno dei partiti tradizionali, ed è prevedibile un ridimensionamento dei pretenziosi tribuni dell’asse rosso-nero (Mélenchon e Marine Le Pen), ma non è certa ad oggi una maggioranza presidenziale diretta, “La République en marche”, nuovo nome del partito del presidente, non essendo sufficientemente radicata, per usare un eufemismo. Bisogna però dire che l’intelligenza politica dei francesi, nello scegliere e nell’eliminare sui due turni, ha dato buona prova di sé, e non si può escludere il bis. Il foro dirigente del partito macronista si chiama ufficialmente Consiglio di amministrazione invece che Bureau politique, e ho detto tutto nel bene e nel male. E quando il presidente bambino ha evocato al Louvre, nella eccezionale serata europeista e patriota del 7 maggio, l’epopea della sua ascesa, ha parlato, e non poteva fare altrimenti, di “mesi e mesi di dura lotta”, questo in un paese in cui le forze storiche e i loro presidenti si sono sempre riferiti a itinerari centenari e bicentenari per o meno. C’è poi il paradosso dei paradossi, al quale non è stata estranea la scelta lungimirante di Hollande di accompagnare il fenomeno Macron, un figlio che si mette in proprio e non un frondeur, con benevolenza. Il paradosso hollandista-macronista è che il nuovo presidente liberale “et de gauche et de droite” ha seppellito il vecchio discrimine nato proprio in Francia tra destra e sinistra, ma è diventato presidente, nonostante il notevole successo personale e strategico nell’appello alla destra repubblicana ex gaullista, in virtù o in ragione del discrimine tra gauche e extrème droite. Hollande ora ridiventa un cittadino normale dopo cinque anni di presidenza di una normalità anormale per la Francia, e merita in fondo un grazie da parte delle persone con la testa sulle spalle.

Estero

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