La guerra sul nucleare tra Usa e Iran dietro il Medio Oriente in fiamme?

Dietro il raid Usa contro Soleimani potrebbe esserci una precisa strategia per mettere gli ayatollah con le spalle al muro

Matteo Carnieletto 6.1.2020 ilgiornale.it lettura3’

“L’Iran non ha mai vinto una guerra, ma non ha mai perso un negoziato!”. È stato questo il primo tweet del presidente americano Donald Trump dopo l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani. Parole sibilline che uniscono, in modo neppure troppo velato, l’omicidio dell’alto papavero di Teheran all’accordo sul nucleare. Quasi che le due cose fossero in qualche modo collegate. Ma è davvero così?

Donald J. Trump

@realDonaldTrump

Iran never won a war, but never lost a negotiation!

Andiamo con ordine e facciamo un passo indietro. Torniamo all’8 maggio del 2018 quando Trump annuncia che gli Stati Uniti sono pronti a uscire dall’accordo sul nucleare siglato nel 2015 da Barack Obama: “Non avremmo mai dovuto firmare quel contratto, non ha portato la pace e non la porterà mai. Dobbiamo punire chi non rispetta le regole, chi imbroglia. L’accordo con l’Iran serve solo alla sopravvivenza del regime a cui permette ancora di arricchire l’uranio”.

L’accordo, seppur imperfetto, serve a garantire una certa stabilità e, soprattutto, un rapporto di fiducia (minima) tra le parti. Con quell’accordo, Teheran si impegnava essenzialmente:

Accordo A ridurre il numero delle centrifughe da 19mila a 5.060, non superando questa soglia per dieci anni

Ad arricchire l’uranio solamente nella struttura di Natanz

In cambio Teheran accettava:

Una moratoria di 15 anni sull’arricchimento dell’uranio al di sopra del 3,67%

Di non conservare più di 300 chili di uranio a basso livello di arricchimento

Dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo, il Golfo persico si poco tempo si infiamma e, nel 2019, si registrano i momenti di più alta tensione.

Il 12 maggio quattro petroliere vengono attaccate al largo degli Emirati Arabi Uniti. Gli Stati Uniti puntano subito il dito contro l’Iran

Il 14 maggio i ribelli Houthi, una formazione sciita che da anni è impegnata contro la coalizione a guida saudita in Yemen, colpiscono due stazioni di pompaggio del petrolio

Il 13 giugno vengono attaccate due petroliere nel Golfo dell’Oman. Secondo l’intelligence americana, l’assalto sarebbe stato pianificato e realizzato dalle Guardie della Rivoluzione

Il 20 giugno i Pasdaran annunciano di aver abbattuto un drone Usa. L’azione è un vero e proprio affronto per Washington. Trump è pronto alla vendetta. Sceglie gli obiettivi da colpire, ma poco prima di dare l’ordine definitivo si ferma. Questo, fino all’attacco che ha eliminato Soleimani, rappresentava il punto più alto dell’escalation tra i due Paesi

Nel frattempo, Teheran ha violato in almeno due occasione l’accordo sul nucleare. Come riporta Il Post: “Prima superando il limite di riserve di uranio arricchito previsto dall’intesa, e poi iniziando a produrre uranio arricchito oltre il 3,67 per cento“.

E veniamo così ai giorni nostri. Ieri, l’Iran ha annunciato di non voler più rispettare gli accordi del 2015 e di esser pronto a riprendere ad arricchire l’uranio. “La decisione era già stata presa” – ha detto il portavoce del ministero iraniano degli Esteri, Abbas Mousavi – che poi ha proseguito, affermando che, “considerando l’attuale situazione, saranno fatte alcune modifiche in un importante accordo questa sera”. Come se la morte di Soleimani avesse rappresentato una cesura, un punto di non ritorno.

Eppure, nonostante lo strappo di Teheran, oggi gli Stati Uniti – tramite Kellyanne Conway, consigliera della Casa Bianca – hanno fatto sapere che Trump è disposto a negoziare un nuovo accordo con l’Iran ma a un’unica condizione: che “inizi a comportarsi come un Paese normale”. Secondo alcuni analisti, l’azione del presidente americano rappresenterebbe un tentativo estremo per far capire agli ayatollah che è necessario sedersi a un tavolo e ridiscutere tutto. L’alternativa sarebbe infatti peggiore. E l’attacco a Soleimani rappresenterebbe solamente un assaggio.

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