La fattoria dei sussidi. Come i populisti dell’Europa centrale hanno imparato a lucrare sui finanziamenti europei

L’arresto di un potente imprenditore del settore agricolo slovacco, molto vicino al precedente governo, è l’ultimo episodio del ruolo ambiguo dei fondi Ue per l’agricoltura che indirettamente foraggiano le élite largamente illiberali dei Paesi di Visegrad

Simone Benazzo, 13.7.2020 linkiesta.it lettura 4’

La settimana scorsa la Corte suprema slovacca ha disposto la custodia cautelare per l’imprenditore Norbert Bödör, ribaltando la precedente decisione di un giudice della Corte penale specializzata, che ne aveva autorizzato la liberazione.

Il nome dell’affarista originario di Nitra è emerso nelle indagini che stanno scoperchiando l’estesa corruzione diffusa nel paese mitteleuropeo. Nello specifico, Bödör sarebbe stato coinvolto in uno schema di tangenti incentrato sull’Agenzia dei pagamenti agricoli (Apa). Il presidente del senato giudicante della Corte suprema ha parlato di una “mega-macchina di corruzione e riciclaggio di denaro” di una portata senza precedenti nella storia della Slovacchia.

Secondo le ricostruzioni della magistratura, Bödör ha intrattenuto rapporti molto stretti con un altro faccendiere ormai celebre anche fuori dai confini nazionali: Marian Kočner, ritenuto il mandante di quell’omicidio che rivoluzionato lo scenario politico slovacco.

La mattina del 21 febbraio 2018 il giornalista investigativo Ján Kuciak e la fidanzata Martina Kušnírová vengono freddati nella loro abitazione di Veľká Mača, una settantina di km dalla capitale Bratislava. Nessuno ha dubbi su quale sia la ragione per questo assassinio così efferato: Kuciak stava indagando le reti di corruzione endemica del paese, ovvero quell’intreccio tra crimine e politica cui non erano estranei esponenti dell’allora partito di governo, la Smer.

 

Anche i nomi di persone molto vicine al premier Robert Fico erano finiti più volte nei suoi articoli, dove aveva descritto il modo con cui la n’drangheta, coadiuvata da fiancheggiatori locali, era riuscita a inifltrarsi proprio nel settore agricolo e incanalare ingenti quote di sussidi Ue.  

L’uccisione ha scatenato ondate di proteste popolari che hanno portato, nell’ordine, alle dimissioni di Fico, all’elezione della liberale Zuzana Čaputová alla presidenza a giugno 2019 e al trionfo del partito populista anti-corruzione Ol’ano alle elezioni parlamentari del 29 febbraio scorso. Gli slovacchi esigono un repulisti assoluto dell’apparato statale.

La magistratura si è mossa di concerto con la politica, lanciando una serie di indagini sul sistema di potere ordito da Kočner e affiliati. Il filone che ha interessato l’Apa, l’indagine “Dobytkár” (“allevatore” in slovacco), ha illuminato il ruolo nodale che i sussidi Ue per l’agricoltura assolvono nell’alimentare I network malavitosi del paese.

E Bratislava non è un caso isolato: i fondi comunitari assegnati al settore primario sono una delle risorse principali cui le élite dei paesi orientali dell’Ue attingono per perseguire scopi differenti dall’interesse delle collettività che governano.

Come ha rivelato un’inchiesta del New York Times, nell’Ue esiste un sistema sussidi tenuto deliberatamente opaco e nocivo per il raggiungimento degli obiettivi green identificati da Bruxelles, nonché caratterizzato da corruzione e ampia discrezionalità. Uno schema che i funzionari Ue non attaccano apertamente in quanto funzionale a garantire la coesione del blocco: da una mole di sovvenzioni generose e gestibili in maniera molto indipendente possono guadagnarci tutti i leader dei 27.  

Molti di quei politici populisti che adorano attaccare Bruxelles su più fronti dirottano i sussidi nelle mani di imprenditori amici, ottenendone in cambio supporto, lealtà e obbedienza. Un accordo mutualmente benefico: le prebende servono al potere politico per vincolare a sè il potere economico, cui questa compenetrazione garantisce l’immunità da una reale concorrenza.

Sebbene non sempre queste connessioni approdino in tribunale, l’esistenza di una zona grigia dove si sovrappongono politica ed economia è un elemento riconosciuto in pressoché tutti gli Stati orientali dell’Ue. Come prevedibile, dove maggiore è l’infiltrazione dell’attore politico nei gangli dell’amministrazione statale, maggiore è la redditività di questo sistema. Non è difficile quindi indovinare quale sia lo Stato più all’avanguardia in questo settore.

Come documentato dal sito investigativo Atlatszo, l’Ungheria orbaniana offre le condizioni perfette per trasformare l’iper-sussidiato settore agricolo in una gallina d’oro per il partito di governo Fidesz e I suoi satelliti. Il governo centrale gode di un potere assoluto: non solo gestisce la redistribuzione dei sussidi comunitari, ma affitta e vende i terreni demaniali. Ciò significa che le autorità hanno gioco facile a favorire i propri amici, facendo loro acquisire – direttamente o tramite prestanome – terreni coltivabili a prezzi competitivi.

Questa prassi produce un’alta concentrazione di terreni nelle mani di pochi imprenditori, spesso senza alcuna esperienza pregressa nel settore, e la progressiva espulsione delle aziende agricole più piccole. József Ángyán, ministro per lo Sviluppo rurale durante il secondo governo Orbán, ha definito le aste un “furto istituzionalizzato” ideato per favorire i “baroni verdi”.

Un caso eloquente: il principale beneficiario della messa all’asta di circa 290 mila ettari di appezzamenti pubblici intrapresa dallo Stato ungherese nel biennio 2015-16 è stato Lőrinc Mészáros, sindaco del paese natio di Orbán, Felcsút. Secondo Forbes, questo storico amico d’infanzia del premier è oggi l’uomo più ricco dell’Ungheria. Nel 2010, anno zero dell’orbanismo, possedeva un’azienda; otto anni più tardi, ne possiede 203, più altre 21 che amministra indirettamente. Un successo invidiabile, per cui deve ringraziare, oltre alle conoscenze, anche quei fondi Ue così determinanti per i tassi di crescita sostenuti vissuti dal pil del proprio paese negli ultimi anni.

Un altro primo ministro mitteluropeo molto appassionato di agricoltura è il ceco Andrej Babiš. La holding grazie al quale il premier, poi entrato in politica alla guida di un partito anti-corruzione, è diventato il secondo uomo più ricco della Cechia la Agrofert, tra 2014 e 2020 ha ottenuto più di 130 milioni di euro sotto forma di sussidi Ue per l’agricoltura o Fondi di coesione, secondo una risoluzione approvata dall’Europarlamento il mese scorso. La posizione di flagrante conflitto di interessi di Babiš, che nonostante le smentite sembra essere ancora legato ad Agrofert, ha spinto molti a invocarne le dimissioni.

La vicenda di Babiš è paradigmatica di una dinamica riscontrabile in tutti i paesi europei ex-comunisti. L’appropriazione dei fondi Ue non infatti è che l’ultimo capitolo di una saga nata nell’immediato post-comunismo, quando l’arrivo dirompente dell’economia di mercato permise a molti ex funzionari del regime di trasfomarsi dalla sera alla mattina in oligarchi, consolidando rendite di posizione che rendono così semplice incamerare illecitamente le risorse pubbliche, incluse quelle comunitarie, tramite la compiacenza delle autorità. Che, se come Orbán controllano anche la fetta maggiore dell’informazione, possono anche proiettarsi come paladini della lotta alla corruzione mentre dirottano fondi pubblici verso amici e familiari.

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