Tutti vengono da qualche altra parte. Israele nasce dalla mescolanza di usanza e culture, da oriente e occidente

Israele è una nazione di immigrati, come lo sono gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, naturalmente, i palestinesi con la cittadinanza israeliana, 20%

Anna Momigliano 6.5.2025 linkiesta.it lettura 8’

Lo Stato ebraico, scrive Anna Momigliano nel suo libro “Fondato sulla sabbia. Un viaggio nel futuro di Israele”, è stato creato prevalentemente da immigrati di origine europea, ma poi trasformato, radicalmente e repentinamente, dall’immigrazione di massa degli ebrei mediorientali

Israele è una nazione di immigrati, come lo sono gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia. Come diceva Amos Oz, è un posto dove “tutti vengono da qualche altra parte”.

Quando diceva che in Israele “tutti vengono da qualche altra parte” Oz dimenticava, naturalmente, i palestinesi con la cittadinanza israeliana. Che rappresentano una bella fetta, circa il 20 per cento, del Paese. Ora, di Oz si possono dire molte cose, ma non che fosse un guerrafondaio o un ultra-nazionalista, eppure Edward Said, uno dei più grandi intellettuali palestinesi, l’ha accusato di non prendere sufficientemente in considerazione il punto di vista del suo popolo, quasi i palestinesi fossero degli alieni.

Non è qui mia intenzione soffermarmi sul dissidio tra Oz e Said, anche se, il solo fatto che due persone di quella caratura intellettuale e morale siano rimasti tanto distanti dovrebbe fare riflettere su quanto profondi siano i solchi tra gli israeliani ebrei e i palestinesi. Il punto, per lo meno qui, è che i palestinesi sono parte integrante della cittadinanza israeliana, anche se spesso la cosa viene dimenticata. Dunque, quando ci si pone la domanda “da dove vengono gli israeliani”, quello che s’intende è da dove viene il restante 80 per cento degli israeliani, che sono ebrei.

Ebbene, da dove arrivano gli ebrei israeliani? Secondo una percezione diffusa, sarebbero arrivati in Palestina fuggendo dalle persecuzioni in Europa e perché mossi dall’ideologia sionista, il desiderio di tornare nella terra degli antenati e costruirci uno Stato moderno. Questo però è vero solo in parte. Un po’ perché una comunità ebraica in Palestina c’è sempre stata, ma soprattutto perché oggi la maggioranza degli ebrei israeliani discende da persone immigrate in Israele… da altri Paesi mediorientali.

È una storia lunga e complicata, da affrontare per gradi. Nel 1880, poco prima che iniziassero le ondate di immigrazione ebraica di stampo moderno, la comunità ebraica in Palestina contava circa 25 mila persone: era il cosiddetto Yishuv Yashan, l’insediamento antico, composto soprattutto da ebrei sefarditi, di rito mediorientale, ma con una piccola minoranza ashkenazita, frutto di un’immigrazione di stampo religioso avvenuta nel corso secoli precedenti.

Lo Yishuv Yashan comprendeva comunità ebraiche distribuite in tutta la Palestina ottomana, comprese le città di Gerusalemme, Hebron, oggi in Cisgiordania, e Safed, oggi in Israele e che gli israeliani chiamano Tzfat. Proprio a Safed, è fiorita una cultura rabbinica di grande importanza, che ha influenzato anche la cultura della diaspora. Era di Safed Isaac Luria, il mistico del sedicesimo secolo, grande studioso della Kabala, attorno al quale si è sviluppato tutto un folklore: alcuni attribuiscono a lui la paternità leggenda ebraica che narra di un giovane costretto a maritarsi con una sposa cadavere, che poi avrebbe ispirato il film di Tim Burton. Era di Safed anche Giovanni Battista Giona, che per primo, nel diciassettesimo secolo, tradusse il Vangelo in lingua ebraica, dopo essersi convertito al cristianesimo.

A partire dal 1880, però, inizia una serie di ondate migratorie, dette aliyot, o salite, da parte di ebrei europei, mossi da aspirazioni nazionali, insomma dal nascente sentimento sionista, e dalla necessità di sfuggire all’antisemitismo, soprattutto dai pogrom in Russia. Queste ondate migratorie crearono lo Yishuv Hadash, l’insediamento nuovo, assai più numeroso dello Yishuv Yashan, una sorta di embrione dello Stato di Israele.

Le prime due aliyot avvennero quando la Palestina era ancora una provincia dell’impero Ottomano.

Per la Prima Aliyah (1882-1903), composta soprattutto da russi moderatamente religiosi, insomma non particolarmente devoti ma neppure pienamente laici, tecnicamente non si può ancora parlare di sionismo: il termine è stato inventato più tardi, senza contare che l’idea di creare un vero e proprio Stato ebraico non era ancora stata formulata. Tuttavia, solitamente la si inserisce dentro le aliyot sioniste perché si è trattato della prima ondata migratoria di carattere non prettamente religioso: loro si facevano chiamare Hovevei Zion, gli amanti di Sion. Quando inizia la Seconda Aliyah (1904-1914) il movimento sionista si era ormai formato, lo scrittore austriaco Theodor Herzl aveva già pubblicato il suo manifesto Der Judenstaat, lo Stato degli ebrei, e infatti la componente ideologica ora è più marcata, la visione politica più articolata, con un’impronta laica e socialista che porta alla fondazione dei primi kibbutz, le fattorie collettive che diventeranno un tratto distintivo di Israele: anche in questo caso gli immigrati sono prevalentemente russi. Dopo la Prima guerra mondiale, quando la Palestina passa sotto il Mandato Britannico seguono la Terza (1920-1922) e la Quarta (1923-1926) Aliyah, dove ai russi si sommano i polacchi, e infine la Quinta Aliyah (1932-1939), composta soprattutto da tedeschi e polacchi.

Inizialmente i dominatori britannici avevano sostenuto le aliyot, arrivando persino a promettere l’istituzione di “un focolare nazionale ebraico” con la Dichiarazione di Balfour, del 1917; ma nel 1939 cambiarono idea ed entrò in vigore il Libro Bianco, che limitava severamente l’immigrazione ebraica in Palestina: la fuga in massa degli ebrei dall’Europa, proprio mentre stava iniziando la Shoah, aveva assunto dimensioni enormi, che cominciavano a fare paura agli inglesi, senza contare che anche il nazionalismo arabo cominciava a fare pressioni. L’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria tuttavia continuò, clandestinamente.

Alla vigilia della nascita dello Stato di Israele, nel 1948, la Palestina mandataria aveva una popolazione di circa mezzo milione di ebrei, in maggioranza di origine europea. Oggi in Israele vivono circa sette milioni di ebrei. E la maggioranza, come accennavamo prima, non è di origine europea.

La verità è che Israele ha conosciuto un’immigrazione molto più numerosa dopo la sua fondazione: si stima che più di tre milioni di ebrei siano immigrati tra il 1948 e il 2016. Di questi, molti erano mizrahim, ebrei provenienti da Paesi arabi e mediorientali. Soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, ci fu un’immigrazione massiccia da Marocco, Yemen, Egitto, Libia, Iran, Iraq, Turchia e Tunisia. Il più delle volte, non è stata una scelta libera: in Egitto gli ebrei sono stati espulsi da Nasser dopo la crisi di Suez, nel 1956. Gli ebrei libici sono stati costretti alla fuga dopo tre pogrom: due, nel 1945 e nel 1948, durante l’amministrazione britannica, l’ultimo, nel 1967, sotto il regno di re Idris: l’esodo degli ebrei dalla Libia, tuttavia, fu concentrato soprattutto tra il 1949 e il 1952.

In Iraq l’emigrazione di massa è cominciata a partire da quello che viene ricordato come il “Farhud”, il violentissimo pogrom che, nel 1941, devastò la comunità ebraica di Baghdad: tra i superstiti del Farhud c’era Sami Michael, lo scrittore israeliano scomparso nel 2024. Prima della nascita di Israele, si stima che circa un milione di ebrei vivessero nei Paesi arabi vicini, soprattutto in Marocco e in Yemen. Oggi praticamente non ce ne sono più: la maggior parte è emigrata in Israele.

In altre parole, lo Stato ebraico è stato fondato prevalentemente da immigrati di origine europea, ma poi trasformato, radicalmente e repentinamente, dall’immigrazione di massa degli ebrei mediorientali.

Successivamente, si sono aggiunti l’esodo degli ebrei etiopi, tra gli anni Ottanta e Novanta, e una nuova ondata migratoria dalla Russia, dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il risultato è un patchwork multietnico, un crogiolo multiforme: la mescolanza di usanza e culture, da oriente e occidente, permea la cultura israeliana in ogni suo aspetto, dalla musica al cibo, passando dalla letteratura.

Secondo un recente sondaggio, il 45 per cento degli ebrei israeliani si considera mizrahi, di origine mediorientale, a questi occorre poi aggiungere un tre percento che è di origine etiope e un otto per cento di origine “mista”. Fatti i conti, si scopre che soltanto il 44 degli ebrei israeliani – che corrisponde al 35 per cento della popolazione israeliana nel suo complesso – è di origine europea. È un dato di cui tenere conto, per almeno tre ragioni. La prima è che, nonostante la rilevanza storica e iconografica dei pionieri sionisti, la maggior parte degli israeliani di oggi è il risultato di storie diverse.

La seconda è che sapere che gli ebrei mizrahi sono un gruppo così consistente, aiuta a capire meglio l’influenza mediorientale sulla cultura israeliana, dalla musica al cibo: la shakshuka, l’onnipresente piatto a base di uova, sugo di pomodoro e verdure, che alcuni considerano sinonimo della cucina israeliana, è in realtà una pietanza magrebina, particolarmente diffusa tra gli immigrati marocchini negli anni Cinquanta perché forniva un pasto proteico e gustoso a un prezzo contenuto. La terza ragione è di natura più prettamente politica. Negli ultimi anni si è diffusa una tendenza a leggere il conflitto israelo-palestinese, oltre che secondo le consuete prospettive, anche in chiave razziale: da un lato i palestinesi, mediorientali, dalla pelle scura, una popolazione “razzializzata”, dall’altro gli israeliani, europei e bianchi. La verità il conflitto israelo-palestinese può essere analizzato da molte prospettive – religiose, etniche, territoriali, nazionali e, non ultimo, coloniali – ma certamente quella razziale non è una di queste.

Spesso i critici di Israele identificano gli israeliani come un corpo esterno nel Medio Oriente, non solo da un punto di vista politico ma anche culturale, e ultimamente è diventato di moda, specie sul web schernire in particolare la cucina israeliana: i falafel, la shakshuka, lo humus, questo il ragionamento, sono tutti piatti “rubati dagli arabi”, quasi la cucina fosse qualcosa che si può rubare, e quasi il legame degli israeliani col Medio Oriente fosse tutto posticcio, creato a tavolino dal nulla. Nulla di più sbagliato e lo ha saputo spiegare bene, partendo proprio dal cibo, lo scrittore palestinese Emile Habibi, una voce peraltro assai critica nei confronti di Israele. Un suo romanzo mette in scena un siparietto tra una coppia araba che si trova a fare colazione in un ristorante israeliano: lei, più giovane, si stupisce che “gli ebrei venuti dall’Europa” sappiano cucinare tanto bene i piatti della sua tradizione, ma lui, più anziano, gli spiega che sono ebrei venuti dai Paesi arabi, questi cucinano come noi, parlano come noi e dicono pure le parolacce in arabo.

Abbiamo visto che Israele, specie nella sua maggioranza ebraica, è una nazione di immigrati, provenienti dai luoghi più disparati del pianeta. Verrebbe da pensare che molti israeliani siano nati all’estero, eppure in realtà non è così. A dire il vero, soltanto il 19 per cento degli israeliani sono nati altrove. Sembrano tanti? Forse dal punto di vista di un Paese come l’Italia, dove l’immigrazione è un fenomeno relativamente contenuto e solo il 10 per cento della popolazione è nata all’estero, ma esistono Paesi occidentali dove questa proporzione è decisamente più alta: in Svizzera, per esempio, i nati all’estero rappresentano il trenta per cento della popolazione, in Australia il 29, in Lussemburgo quasi il cinquanta.

A guardare i dati, Israele ha più o meno la stessa percentuale di cittadini nati all’estero che hanno l’Austria, l’Irlanda, la Svezia e il Belgio. Qualcuno potrebbe domandarsi com’è possibile in una nazione nata da un’immigrazione di massa, concentrata soprattutto nella seconda metà del Novecento. La spiegazione sta nel fatto che Israele ha una popolazione estremamente giovane, specie per gli standard di un’economia avanzata: più di un quarto degli israeliani ha meno di quattordici anni e circa la metà ne ha meno di trenta. Gli israeliani di oggi sono i figli, i nipoti e bisnipoti delle grandi aliyot. E sono, semplicemente, israeliani.

Commenti   

#1 walter 2025-05-06 09:21
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