Sagui Dekel-Chen rilasciato da Hamas dopo 498 giorni di sequestro
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“Io, padre dell’ostaggio liberato, mi chiedo perché l’Occidente si rivolta contro Israele”
Lorenzo Vita 7.10 2025 alle 19:29 ilriformista.it lettura 4’
Parla il papà Jonathan: “Il 7 ottobre mi sono salvato perché ero negli Stati Uniti. I terroristi facciano tornare a casa gli israeliani: solo così la guerra finirà”
Due anni dopo, Jonathan Dekel-Chen, professore alla Hebrew University, vive il dolore del 7 ottobre come una ferita difficile da rimarginare. Suo figlio, Sagui, è stato liberato nell’ultimo accordo tra Israele e Hamas dopo 498 giorni di sequestro. Ma molte persone del suo kibbutz, quello di Nir Oz, sono ancora nella Striscia di Gaza.
Come si sente dopo due anni?
«A livello del tutto personale, sono profondamente grato che mio figlio sia tornato. Ma questo è un promemoria quotidiano di due cose: dei 48 ostaggi rimasti e della catastrofe avvenuta a Nir Oz il 7 ottobre. Dei 48 ostaggi, nove provengono dal nostro kibbutz, dalla nostra piccola comunità. Le nostre case sono state distrutte. Ci hanno portato via il nostro stile di vita. Decine di persone sono state assassinate e molte prese in ostaggio. E tutto questo in una comunità di poco più di 400 persone. Quindi stiamo ancora lottando e potremo davvero riprenderci, guarire ed elaborare il lutto solo quando tutti gli ostaggi saranno tornati a casa».
Cosa ricorda di quei momenti del 7 ottobre?
«L’unica ragione per cui possiamo parlare ora è che non ero nel kibbutz in quel momento. Ero negli Stati Uniti per partecipare a una conferenza. Ho saputo di cosa stava succedendo solo verso le 6.30 del mattino a Baltimora, negli Stati Uniti. Avevo mio figlio, mia figlia con la sua famiglia e la mia ex moglie nel kibbutz».
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Una famiglia colpita al cuore. Ma possiamo immaginare un’intera comunità.
«Sì, bisogna anche capire che siamo un piccolo kibbutz, una piccola comunità. In un certo senso, tutti quanti i suoi abitanti sono la mia famiglia allargata. Ho vissuto con queste persone per 45 anni. E quindi, anche se non siamo legati da vincoli di sangue, questa è una grande famiglia. È molto tipico di un kibbutz, ma in particolare di quelli più piccoli, più periferici del Paese».
In questi giorni si attende l’esito del negoziato in Egitto. Non si riesce a capire quanto possano durare le trattative e come si concluderanno. Come può descrivere i momenti precedenti la liberazione di suo figlio?
«Una volta annunciato l’accordo, circa una settimana prima (o forse anche meno) del suo rilascio, abbiamo ricevuto la notifica che Sagui sarebbe stato effettivamente liberato. C’era un’enorme aspettativa, agitazione e preoccupazione perché non sapevamo in quali condizioni si trovasse. Camminava? Non lo sapevamo. Era mentalmente e spiritualmente sano? Non potevamo saperlo. Non eravamo sicuri nemmeno che fosse vivo. Sapevamo che era stato ferito il 7 ottobre e ci era stato confermato anche dagli ostaggi rilasciati alla fine del 2023 che lo avevano incontrato durante la prigionia. Ma da allora era passato più di un anno. Inoltre, quelle che avevamo visto nelle settimane precedenti erano immagini di persone consegnate in condizioni terribili. Molti di loro provenivano da Nir Oz. Era quindi incredibilmente spaventoso pensare a cosa fosse successo a loro e a cosa fosse successo a Sagui. Per cui eravamo molto preoccupati anche per la sua sicurezza, anche durante quelle cerimonie infernali create da Hamas».
Cosa dice ai familiari degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas?
«Parlo con loro spesso, li conosco, sono di qua. Quello che dico loro è di mantenere la fede. Il governo israeliano spesso non è sembrato concentrarsi sul riportare a casa gli ostaggi, è vero. Ma i cittadini vogliono solo riportare a casa i rapiti e fermare questa guerra. Poi certo, per molti di loro è solo un conforto parziale perché alcuni ostaggi sono stati assassinati. Come si può confortare un familiare di qualcuno il cui corpo è a Gaza da due anni? Non esistono parole giuste».
Lei è in America, dove le proteste per Gaza sono molto forti. Come percepisce non solo gli Stati Uniti, ma il mondo, oggi rispetto al giorno dopo il 7 ottobre?
«L’opinione pubblica – in generale in Occidente – si è rivoltata contro Israele e chiede un cessate il fuoco. E io, in un certo senso, lo capisco, perché la sofferenza a Gaza è reale. Ma è anche vero che l’8 ottobre 2023 ci sono state manifestazioni pro-Israele, ma anche manifestazioni pro-Hamas e anti-Israele. E dobbiamo ricordarlo. Ci sono molti motivi per cui il sentimento anti-israeliano nel mondo è diffuso. Sicuramente molti sono genuinamente a favore dei palestinesi, ma pochi sembrano disposti a concentrarsi sull’unico modo per porre fine alla guerra».
Ovvero?
«Questo risultato si ottiene non facendo pressione su Israele, boicottandolo o condannandolo, ma convincendo Hamas a rilasciare gli ostaggi. Questi non sono prigionieri, sono ostaggi, e nel momento in cui saranno restituiti, la guerra finirà e la popolazione di Gaza non dovrà più soffrire e potrà in qualche modo iniziare a ricostruire la propria vita. E quindi, ancora una volta, pur comprendendo totalmente la sofferenza dei cittadini di Gaza, in gran parte vittime di Hamas, ho meno pazienza con i manifestanti di tutto il mondo che hanno semplicemente scelto di dimenticare come è iniziata questa guerra e come può davvero finire».



Commenti
Costanza Esclapon 8 Ottobre 2025 alle 13:08 ilriformista.it
Quello di Gaza è l’unico genocidio al mondo iniziato venti giorni dopo che le vittime hanno dichiarato guerra a uno Stato massacrando civili casa per casa, e macellando soldati dell’esercito nemico. L’unico genocidio in cui le vittime avrebbero potuto fermare il fuoco nemico in 24 ore liberando gli ostaggi dal giorno immediatamente successivo, l’8 ottobre, e ogni giorno a seguire fino a oggi (stiamo ancora aspettando). L’unico genocidio in cui le vittime sono assistite per raggiungere gli ospedali dei paesi di cura dallo stesso esercito che dovrebbe eliminarle.
L’unico genocidio dove non c’è acqua né elettricità ma i telefonini sono sempre accesi, e sono fortunatamente nati 100.000 bambini in due anni. L’unico genocidio in cui prima di attaccare i civili un esercito gli chiede di lasciare l’area. L’unico genocidio dove la grande maggioranza delle vittime sono uomini in età da combattimento (16-55)
Soprattutto il primo genocidio che inizia con le vittime che uccidono e stuprano, bruciano e profanano cadaveri all’interno delle frontiere del paese che commette il genocidio, rubandone i bambini e le donne e uccidendoli di fame e torture nei tunnel. È il primo genocidio in cui le vittime sono nella posizione di negoziare i tempi e i modi della trattativa che potrebbe firmare all’istante lo stesso genocidio. È il primo genocidio di un popolo di adulti che offre alle bombe per primi i corpi dei bambini invece di proteggerli nei tunnel, e usa i civili come scudi umani per proteggere l’esercito.
A vederla così, bisogna riflettere se persone come Hamas, Francesca Albanese e i vari “certificatori” dell’ONU come Andy Seal, hanno anche solo il diritto di prenderci in giro. Perché, a vederla così, i civili palestinesi realmente vittime di questa atroce sofferenza non sono altro che “paid ads”, cartelloni, poster, banner, pop up, dal valore di pochi centesimi, comprati al mercato della propaganda da chi li ha venduti, ovvero i signori islamisti di cui sopra e gli affiliati occidentali del circo mediatico…estratto
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