Eccidio Rohingya, lo strano silenzio di San Suu Kyi

Nel Sud-Est asiatico è crisi di migranti. Sono Rohingya, minoranza perseguitata in Myanmar. Ma la Signora dei diritti umani tace. Aizzando così l'odio razziale.

Aung San Suu Kyi, leader dell'opposizione in Birmania.

di Michele Penna | 22 Giugno 2015 Lettera43

Sono tempi duri per Aung San Suu Kyi, icona dei diritti umani in Birmania e guida della National league for democracy (Nld): da quando una storica crisi di migranti si è abbattuta sul Sud-Est asiatico, la “Signora” - come viene spesso chiamata qui a Yangon, l'ex capitale del Myanmar - si è dovuta esibire in un complesso gioco di equilibrisimi politici che ne stanno intaccando l'immagine nel mondo.

TRAFFICANTI DI UMANI. Questa situazione ha avuto inizio ai primi di marzo del 2015, quando il governo thailandese ha tagliato le vie di comunicazione usate dai trafficanti di esseri umani per trasportare la loro “merce” da Bangladesh e Myanmar verso Malesia e Indonesia.

Temendo di essere arrestati, i barcaioli non hanno esitato ad abbandonare i loro carichi in alto mare.

Dopo settimane o mesi trascorsi alla deriva, migliaia di persone sono così arrivate sulle coste dei Paesi vicini, creando una crisi umanitaria.

MIGLIAIA DI RIFUGIATI. Il 5 giugno Melissa Fleming, portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), ha affermato che nel solo mese di maggio circa 4.800 persone sono sbarcate sulle coste del Sud-Est asiatico.

Lo stesso giorno, citando le Nazioni unite, l'agenzia Reuters scriveva che con ogni probabilità circa 2 mila persone erano ancora in balia delle onde.

MINORANZA NEL MIRINO. Il Myanmar si trova nell'occhio del ciclone. Una buona parte dei migranti proviene dal Rakhine - una delle province occidentale del Paese - ed è costituita da Rohingya, minoranza che da decenni viene perseguitata.

Molti pensano che dietro alle azioni del governo si nasconda una precisa strategia politica: siccome il Rakhine ha sempre avuto ambizioni indipendentiste - e non è l'unico in un Paese in cui vari conflitti civili vanno avanti dal 1948 - le autorità hanno trovato politicamente saggio aizzare l'odio etnico fra la maggioranza buddista della provincia e la minoranza musulmana dei Rohingya. L'obiettivo, naturalmente, è controllare entrambe.

AVVERSIONE DIFFUSA. L'avversione per questo gruppo etnico si è così diffusa a macchia d'olio anche sul resto del territorio nazionale.

I Rohingya vengono definiti «immigrati bengalesi» per indicare che non appartengono alla nazione e dopo le violenze del 2012 sono stati costretti a vivere in campi per rifugiati senza avere accesso né a scuole né a ospedali.

IN FUGA ALL'ESTERO. Oltre 200 mila hanno attraversato il confine con il Bangladesh, dove secondo Myanmar 30 mila ricevono aiuti dal governo bengalese e dalle Nazioni unite, mentre la grande maggioranza è costretta ad arrangiarsi.

Non stupisce quindi che in molti vogliano fuggire per rifarsi una vita all'estero, andando a riempire le barche dei trafficanti.

La comunità internazionale si chiede: perché la Signora non parla?

Tutto questo ha creato una forte tensione con i Paesi vicini e con le Nazioni unite, che hanno a più riprese criticato Naypyidaw, sostenendo che l'unica soluzione alla crisi umanitaria sia il riconoscimento del diritto di cittadinanza ai Rohingya.

Perfino un gruppo di talebani pakistani - un alleato che senza dubbio l'Onu preferirebbe non avere - ha recentemente chiamato i Rohingya a combattere una guerra santa contro il governo.

Il silenzio di Aung San Suu Kyi su questo tema dura da anni, e da anni è una spina nel fianco per i suoi sostenitori nel mondo.

SILENZIO ANTI-POLEMICHE. La crisi non ha fatto altro che ingigantire la domanda che oggi tutti si pongono: perché la Signora non interviene?

Citando una fonte vicina a lei vicina, il Washington post ha scritto nel 2014 che Suu Kyi preferirebbe il silenzio per evitare di creare ulteriori tensioni.

«Non resto in silenzio per calcolo politico. Sto in silenzio perché qualsiasi posizione prenda, rischierebbe di esserci più sangue», avrebbe detto la Signora.

Il che può certamente essere vero.

RISCHIO EMORRAGIA DI VOTI. Ma molti temono che alla sede della Nld qualche calcolo elettorale sia stato fatto, dato che prendere le parti dei Rohingya potrebbe causare un'emorragia di voti alle elezioni di ottobre 2015.

Ed è proprio per questo motivo che gli appelli internazionali - incluso quello del Dalai Lama, che a fine maggio ha incoraggiato Aung San Suu Kyi a «fare qualcosa» - serviranno probabilmente a poco.

La paladina dei diritti umani sta perdendo appeal

 (© Ansa) Aung San Suu Kyi 2

Lettera43.it ha toccato con mano l'ira dei nazionalisti birmani che il 27 maggio a Yangon hanno protestato contro l'arrivo di un'imbarcazione che trasportava 208 migranti.

Temendo che alcune di queste persone potessero rimanere sul territorio nazionale come 'Rohingya', diversi gruppi radicali si sono riuniti in un corteo vicino allo stadio Kyaikkasan per una marcia seguita da vari discorsi pubblici.

DEFINITA UNA «STUPIDA». A molti manifestanti - alcuni giovanissimi - perfino il silenzio di Suu Kyi non bastava: qualcuno non ha esitato a definirla «una stupida» per il semplice fatto di non essersi apertamente schierata a loro favore.

Il pragmatismo politico inteso a blandire i gruppi nazionalisti ha però i suoi rischi: Suu Kyi sta velocemente perdendo quelle simpatie internazionali che l'hanno sempre sostenuta e che ne hanno fatto una paladina dei diritti umani.

CRISI DI CONSENSI. Anche a livello domestico c'è il rischio che a lungo andare Suu Kyi perda quell'aureola di santità che si è creata in lunghissimi anni di detenzione, omologandosi così ad altre figure politiche locali.

Il primo giugno un titolo della Cnn chiedeva se la Signora avesse «perso la voce».

Penny Green, direttrice dell'Intenrational State Crime Initiative, un gruppo che documenta i crimini di Stato nel mondo, era stata ancora più drastica in un pezzo uscito 20 maggio sull'Independent: «Se aspettiamo che Aung San Suu Kyi si esprima contro questo genocidio, non ci saranno più Rohingya».

FA IL GIOCO DEL GOVERNO. Per Maung Zarni, attivista birmano in esilio e co-organizzatore della 'Conferenza per porre termine alla sistematica persecuzione dei Rohinngya' tenuta a maggio a Oslo, Suu Kyi fa il gioco del governo - civile nel nome, ma di fatto formato da esponenti delle forze armate - quando si rifiuta di parlare.

«In realtà, la persecuzione dei Rohingya e la propaganda del regime di Naypyidaw sono sempre di aiuto alle forze armate», ha scritto Zarni in un'intervista via email per Lettera43.it.

«COSÌ SI IMPICCA DA SOLA». «Questa politica ha anche fornito ad Aung San Suu Kyi un corda per impiccarsi (metaforicamente, ndr) con le proprie mani. E lei sta facendo esattamente questo quando abbandona i diritti umani e la compassione come pilastri della sua politica».

Categoria Estero

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