orsi & tori. Chi ha vinto? Chi ha perso? Di sicuro ha perso l'Europa; apparentemente Angela Merkel

 e Grecia hanno pareggiato, ma il risultato vero si avrà solo ai tempi supplementari.

di Paolo Panerai . Italia Oggi, 11.7.2015

La sconfitta dell'Europa è netta, perché mai un'entità politica e territoriale che ha deciso di chiamarsi Unione ha offerto uno spettacolo così squallido come quello della Ue in questi ultimi anni, fra l'egoismo mascherato da rigorismo della Germania, la dissipatezza dei greci, l'inadeguatezza di chi trionfalmente, essendone stato il consulente, favorì l'ingresso della Grecia in Europa e nell'euro (nella rete circola un'intervista entusiasta al professor Mario Monti); così squallido fra la scelta di Bruxelles e del Fondo Monetario internazionale di concedere sì prestiti al Paese ellenico ma di fatto per salvare le banche tedesche, francesi e spagnole, che avevano finanziato a man bassa lo sviluppo greco, senza preoccuparsi che quei soldi servissero per il ritorno allo sviluppo del Paese, imponendo politiche di austerità che appunto portano solo alla depressione e all'impoverimento dei cittadini.

Non è un caso che l'unico applauso scrosciante del Parlamento europeo Alexis Tsipras lo abbia ricevuto quando ha ricordato che dei 300 miliardi di finanziamenti non un euro è arrivato ai cittadini che hanno dovuto subire il crollo del pil e quindi la caduta dei loro redditi. È vero: in tutta Europa, più o meno, i lavoratori vanno in pensione ben oltre i 67 anni mentre in Grecia andavano a 55 anni. È corretto che su questo punto i cittadini tedeschi o degli altri Paesi virtuosi si siano indignati. È spontaneo che di fronte all'indignazione dei tedeschi la cancelliera Merkel abbia dato ragione ai suoi elettori. Non è politicamente accettabile che chi pretende, avendone alcune ragioni, di avere la leadership dell'Unione europea non ragioni nell'interesse di tutta l'Europa e anche dei Paesi più in difficoltà come la Grecia. Il predecessore della Merkel è stato un leader che sempre sarà ricordato come tale perché, quando cadde il muro, ebbe il coraggio di chiedere al resto dell'Europa di poter ricongiungere le due Germanie pur determinando l'ingresso nella Unione di un Paese povero e distorto da decenni di gestione comunista. Quello fu un atto d'amore da parte di Helmut Kohl e un atto di generosità da parte degli altri Paesi europei nell'avere accettato.

Proprio la Merkel che veniva da quel Paese povero e inefficiente avrebbe dovuto ricordarselo; invece se n'è dimenticata con l'arroganza di chi, certo anche con sacrificio e rigore, è ritornato ricco. Se Kohl non avesse proposto la riunificazione con la parità del marco dell'Est con il fortissimo deutsche mark, quale sarebbe ora la condizione dell'ex Germania dell'Est?

Sono domande morali? Sono domande di convenienza da un Paese come l'Italia che avrebbe molto da temere dal fallimento della Grecia, essendo in prima fila per una forte speculazione a causa del suo debito record? No, sono domande di pura politica. È possibile avere un'Unione senza solidarietà spontanea ma strappata con le unghie e con i denti, con lacerazione dei popoli e in grande ritardo come è avvenuto per la Grecia?

Un europeista vero e convinto come Jacques Delors, l'indimenticabile presidente francese della Commissione europea per due mandati, aveva già trovato la soluzione per cementare lo spirito e l'unione vera con la proposta del lancio degli Eurobond, cioè di titoli di Stato di tutta l'Europa al posto dei titoli dei singoli Stati. Era certo la socializzazione del debito o almeno di una parte di esso o almeno la provvista per fare investimenti utili al rilancio degli Stati in difficoltà e quindi della stessa Unione, che di Stati è composta.

Cosa sarebbe successo se lo Stato federale Usa non fosse intervenuto tempestivamente nel momento in cui la California stava per fallire?

Per la piega che avuto finora la vicenda della Grecia, è razionale, quindi, prendere per acquisito il dato che nell'Ue è bene che chi ne ha le possibilità risolva da solo i suoi problemi. È inutile illudersi che il problema sociale e umanitario degli immigranti clandestini che sbarcano sulle coste italiane possa essere risolto dall'Unione europea. Anche il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, se ne è reso conto. Se l'Europa non è disponibile a essere Unione per un problema così evidente (per il fatto che i clandestini africani arrivano sulle coste del Sud d'Italia perché sono le più vicine ai Paesi del Nord Africa da cui partano i barconi dei trasportatori spesso di morte) e così umanamente drammatico, figuriamoci se saranno disponibili, una volta spento (momentaneamente?) il focolaio Grecia, a cooperare perché il terzo Paese dell'Unione disinneschi nell'interesse di tutti la bomba del debito. È vero, è inoppugnabile, il debito italiano è diventato una grave minaccia per gli errori compiuti da chi ha governato l'Italia negli ultimi trent'anni, ma al di là dell'inettitudine o peggio di alcuni governi c'è il dato oggettivo che il male dell'Italia ha una radice profonda nel suo passato di dittatura e nella conseguente volontà dei fondatori della Repubblica di creare un tale bilanciamento dei poteri nella Costituzione repubblicana creando una democrazia parlamentare con ben due rami deliberanti, sì da determinare di fatto un dominio della burocrazia senza nessun sufficiente potere di gestione da parte del governo, per non parlare del primo ministro che non può neppure dimissionare un ministro se non funziona.

Anche la Francia nei primi anni del dopoguerra perdeva colpi per un assetto dello Stato e una distribuzione dei poteri inadeguati. Ci volle l'ascesa al potere del generale Charles De Gaulle perché, con l'autorità che gli derivava dalla sua storia personale durante la guerra, ottenesse una riforma della Repubblica, passata da parlamentare a presidenziale, con l'elezione diretta del presidente della Repubblica, che ha il potere di nominare il governo per tutta la durata del suo mandato anche se il suo schieramento non avesse la maggioranza in parlamento. Una situazione simile agli Usa, dove non capita di rado che il presidente, dotato di forti poteri, si trovi a governare con in parlamento una maggioranza in mano non al suo partito. In questo caso il parlamento diventa ancora di più organo di garanzia, ma solo per quelle leggi e quelle materie dove la Costituzione ha previsto che il presidente e i suoi ministri non possano decidere in autonomia.

È quindi più che legittimo che l'Europa chieda all'Italia le necessarie riforme istituzionali. Il governo Renzi ha risposto con la legge costituzionale che toglie al Senato il potere di legiferare. Sicuramente un passo importante in avanti, anche se il ruolo e le modalità di composizione del Senato appaiono, per non pochi, discutibili. Ma l'altro fondamentale problema del potere del governo e in particolare del presidente del Consiglio rimane insoluto. Per lungo tempo in Italia al solo parlare di Repubblica presidenziale volavano parole di fascista, peronista, o golpista. È stata la silenziosa intesa fra Dc e Pci, del resto decisivi nella formazione della Costituzione, a escludere qualsiasi ipotesi presidenzialista. Il destino ha voluto che proprio un presidente della Repubblica comunista, anche se della corrente di destra migliorista, abbia di fatto avuto un potere da Stato presidenzialista. E meno male che Giorgio Napolitano ha avuto il coraggio e l'abilità di decidere come se fosse stato eletto direttamente dal popolo e con poteri nettamente superiori a quelli di controllore che gli assegnava. Nessun italiano di buon senso e di sicuro fondamento democratico ha avuto da lamentarsi. Anzi, è stato chiaro che senza l'approccio di Napolitano, bravissimo anche a operare sul filo della Costituzione, la drammatica crisi economica vissuta dall'Italia a cominciare dal 2008 con apice nel 2011 avrebbe potuto sì generare anche movimenti antidemocratici.

All'alba della sua ascesa a Palazzo Chigi, sia pure senza l'investitura elettorale (ma la Costituzione attuale dà il potere ai due rami del parlamento di assegnare la fiducia al governo), Renzi aveva correttamente individuato in alcune istituzioni che formano l'apparato statale il freno alla modernizzazione e al governo. In particolare Renzi si riferiva al Consiglio di Stato, un corpo Giano bifronte: da una parte organo giudicante e dall'altro, attraverso il distacco dei suoi componenti ai vertici dei ministeri, dei gabinetti ministeriali, degli uffici legislativi, di fatto detentore del vero potere operativo di governare. Al punto che Renzi per l'ufficio legislativo di Palazzo Chigi, prima che gli arrivasse un consigliere di Stato, ha chiamato a ricoprire il ruolo la fidata comandante dei Vigili urbani di Firenze, Antonella Manzione.

Riformare la burocrazia italiana deve essere un imperativo per chiunque voglia modernizzare il Paese. I casi di freno e di distorsione dell'azione di governo da parte dei burocrati, per il loro obiettivo di conservare il potere che hanno, sono infiniti. È quindi questa la riforma più difficile. Senza nulla togliere al ministro attuale, Marianna Madia, forse scelta da Renzi in quanto donna, nel suo errato e propagandistico obiettivo di pareggiare per forza le quote rosa con quelle maschili, occorre un forte rafforzamento proprio di quel ministero. La riforma annunciata, anzi in itinere parlamentare, non appare né sufficientemente energica né sufficientemente strutturata.

Come si vede, è enorme il lavoro che Renzi ha davanti e per il quale dovrebbe abbandonare un altro dogma, cioè che i consiglieri di cui circondarsi debbano essere per forza vergini da ogni potere precedente, visto che ce ne sono anche di più seri e preparati e con più esperienza e conoscenza dei temi sul tavolo e della macchina, che nessuno dei prescelti ha. Ma su tutti, una volta scongiurato il pericolo di finire in prima linea dopo la Grecia, deve essere dedicato impegno, energia e cervello alla risoluzione del problema del debito italiano. Renzi non può dimenticare che l'Italia ha davanti solo un anno di sicura protezione, cioè quello che resta del periodo in cui Mario Draghi potrà proteggere i titoli di Stato italiani con il Qe. Appena è parso che il problema Grecia stesse volgendo alla rottura traumatica, lo spread dei titoli italiani ha preso a salire e si è fermato soltanto per la messa in campo delle munizioni del Qe. Ma ciò che dovrebbe essere tenuto in maggiore considerazione è l'attacco portato negli ultimi due lunedì neri alle banche italiane, con perdite fin oltre il 7% perfino di Intesa Sanpaolo, la banca più solida d'Europa con un eccesso di capitale di oltre 15 miliardi. Che cosa dovrebbe far comprendere ciò a Renzi e al governo? Che la speculazione, appena ci sono turbamenti sul mercato, vede grandi opportunità, come è stato nel 2011, a operare sul debito italiano. Di fronte alla potenza di fuoco del Qe attrezzato da Draghi, non rischia più di tanto direttamente sui Btp ma si butta sulle banche che possedendo grandi quantità di titoli del debito italiano sono una sorta di proxy, cioè di derivato ideale per poter comunque speculare.

Per il governo italiano e in particolare per il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, econometrista convinto che per sostenere il debito basterà un po' di inflazione e un po' di crescita, le ultime due settimane del caso Grecia dovrebbero essere come una sorta di prova generale o se si vuole di stress test di che cosa potrebbe accadere all'Italia una volta finito il Qe senza che nel frattempo il debito enorme non sia stato drasticamente tagliato, con vari strumenti: dal taglio della spesa sanitaria e delle Regioni alla costituzione del Fondo degli italiani composto di beni dello Stato e degli Enti locali in modo da scambiare quote dello stesso fondo con titoli di Stato, che oggi rendono pochissimo; fino alla negoziazione con la Ue delle stesse condizioni della Francia in tema di deficit di bilancio per liberare risorse utili allo sviluppo.

Fra vincitori e perdenti, almeno il caso Grecia potrebbe avere una utilità per il futuro dell'Italia. (riproduzione riservata)

Categoria Estero

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