Quali e quante truppe servono per avere una “reazione impietosa”

Gli analisti pro intervento. Coalizioni e obiettivi possibili. Il Pentagono pronto a cambiare le regole d’ingaggio nei raid

di Paola Peduzzi | 20 Novembre 2015 ore 10:50

Milano. Al momento le forze che combattono a terra, in Siria e Iraq, contro lo Stato islamico sono quelle curde, che collaborano con la coalizione guidata dagli Stati Uniti, e le milizie iraniane, che si muovono con una certa autonomia e che gravitano strategicamente attorno all’asse Russia, Siria e Iran. In America, dove il capo del Pentagono ha annunciato di essere “pronto a un cambio delle regole d’ingaggio” nei raid aerei, la richiesta di inviare truppe di terra è tornata pressante, da parte di politici ed esperti, dopo gli attacchi di Parigi: Bloomberg View ne ha messi alcuni, come Peter Mansoor, gran consigliere di David Petraeus ai tempi del “surge” in Iraq, David Johnson, ex colonnello dell’Esercito, James Jeffrey, ambasciatore americano in Iraq tra il 2010 e il 2012, Buck Sexton, ex analista di controterrorismo della Cia, per non parlare del generale Ray Odierno, presidente del Joint Chiefs of Staff, che da un anno ripete che con gli airstrike non si può “distruggere” lo Stato islamico – distruggere è l’obiettivo posto dall’Amministrazione Obama. Nessuno di questi esperti dice che i soldati debbano essere tutti americani, e Barack Obama esclude sì di inviare le truppe ma aggiunge: “Se vogliamo che ci sia un’evoluzione di questo genere, più nazioni devono mettere a disposizione le risorse che questa battaglia esige”. Bisogna costruire un esercito.

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Sul Wall Street Journal, Gerald F. Seib ha cercato di spiegare come si può formare un esercito che combatta contro lo Stato islamico: nel mondo ideale (ideale per Obama) si potrebbe formare un esercito sunnita con Giordania, Iraq, Arabia Saudita, altri paesi del Golfo e Turchia, ma “sappiamo che una forza del genere non nasce in modo organico, altrimenti esisterebbe già”, scrive Seib. Si possono fare altre ipotesi. La prima è una coalizione a guida Nato: truppe della regione aiutate dalla copertura aerea, dall’intelligence e dai consiglieri militari occidentali. “Il problema – spiega Seib – è che questa opzione escluderebbe la Russia, che invece può e deve fare parte di una soluzione in Siria”. Un’altra ipotesi è quella di una coalizione sotto l’egida dell’Onu: ci sarebbe così quella copertura politica internazionale che tutti invocano e ci sarebbe anche una dimostrazione di compattezza contro lo Stato islamico. “Ma le politiche delle Nazioni Unite sono sempre complicate”, scrive Seib. Resta la possibilità di creare una “coalition of the willing” come quella formata da George W. Bush per l’invasione irachena nel 2003: potrebbero guidarla americani, francesi e russi, fornendo le risorse necessarie ai paesi della regione che vi partecipano.

 

In ogni caso, scrive Seib, i problemi non mancherebbero, non soltanto perché non è possibile prevedere la capacità di reazione dello Stato islamico (comunque ferocissima: le opinioni pubbliche sarebbero tormentate da immagini inguardabili), ma perché ci sono altre due questioni in sospeso: una riguarda il futuro del rais siriano Bashar el Assad, ma è ora in secondo piano perché, nonostante i suoi tanti e feroci crimini, come ha scritto Paolo Mieli sul Corriere della Sera, al momento dovrebbe entrare nell’equazione di una risposta collettiva al Califfato. L’altra è invece ancora ben presente: in che modo si lavora sul campo con le milizie sciite, con le Guardie della rivoluzione e con Hezbollah? In più c’è la questione turca: per ora il governo di Ankara del premier Ahmet Davutoglu è stato l’unico a considerare ufficialmente la possibilità di inviare truppe in Siria, ma sempre “non in modo unilaterale”: che ne sarebbe allora del ruolo cruciale delle forze curde?

 

Questi sono gli interrogativi geostrategici cui è necessario dare una risposta. Poi ci sono i numeri. Quando Barack Obama ha escluso, qualche giorno fa, per l’ennesima volta, l’invio di truppe di terra, ha chiesto ai giornalisti presenti di immaginarsi come potrebbe funzionare l’invio di “50 mila soldati americani”, e se poi questo sarebbe il presupposto per inviare altre truppe in paesi da cui possono partire attacchi terroristici internazionali, come lo Yemen. Mandiamo truppe dappertutto? Si sa che Obama ama questa ironia – è in un’occasione del genere che l’anno scorso ha delineato la sua famosa dottrina di politica estera: “Non fare cazzate” – ma Michael O’Hanlon, senior fellow alla Brookings Institution, lo ha preso sul serio e su Reuters ha stilato una serie di scenari.

Al momento in Siria ci sono 50 “special operator” in arrivo, più di un centinaio di agenti della Cia e circa mille militari a terra a sostegno degli airstrike. Se si mandassero 50 mila soldati, come da ipotesi-scherzo di Obama, si avrebbero le forze sufficienti – scrive O’Hanlon – per rovesciare il regime di Assad e conquistare Raqqa, la “capitale” siriana dello Stato islamico. Nel 2003, per il regime change di Saddam Hussein in Iraq sbarcarono circa 100 mila marine, “ma soltanto una parte fu cruciale per la caduta di Saddam, per lo più gli altri si preparavano a quel che sarebbe accaduto dopo la caduta del regime”. Anche se ricordare quel momento oggi suona come un brutto presagio, “la stima di 50 mila soldati da inviare non è poi così sbagliata se si vuole organizzare un’invasione”. Poi però c’è la ricostruzione, quel “nation building” in cui l’occidente non sta dando gran prova di sé, e allora 50 mila truppe potrebbero non essere sufficienti. Quando il surge funzionò in Iraq tra il 2007 e il 2008 c’erano 170 mila marine e circa 200 mila truppe non americane: “Poiché la Siria ha 3/4 della popolazione irachena, 100 mila soldati potrebbero essere una giusta stima”, a patto che sappiano “che dovranno fermarsi per anni”.

La possibilità che si crei una forza internazionale di queste dimensioni è più che remota, quindi O’Hanlon analizza versioni più adattabili a una comunità internazionale che non ha tutta questa voglia di inizare un’invasione. Una forza di cinquemila uomini sarebbe comunque sufficiente per portare il conflitto a un livello molto lontano da dove è oggi: “Forze speciali, addestratori, truppe nelle zone più sicure, a cominciare dalle zone curde nel nord e quelle vicine alla Giordania nel sud, accelererebbero anche la crescita di forze d’opposizione siriane”. Questo obiettivo politico – l’opposizione siriana che funziona – pare una chimera, ma in realtà un contingente così fatto consentirebbe la creazione di una “no fly zone” nei confronti delle forze aeree siriane, senza un controllo costante (come invece ci fu ad esempio in Iraq durante gli anni Novanta grazie, come sempre, alla collaborazione curda) ma con la possibilità di reagire nei confronti dei velivoli siriani – non russi! – che bombardano la popolazione civile. In questo modo si potrebbero anche aprire e mantenere corridoi umanitari per contenere il flusso di rifugiati verso l’occidente (in Europa al momento arriva il 5 per cento dei rifugiati siriani). Fatti tutti i calcoli, O’Hanlon dice che una forza composta da 25 mila soldati potrebbe essere una giusta misura, ed efficace, ed è più o meno su questi numeri che si assestano gli esperti: Gianandrea Gaiani di Analisi Difesa ieri sul Sole 24 Ore spiegava che circa 20 mila unità, “4 brigate con artiglieria, mezzi corazzati ed elicotteri che affiancassero le truppe siriane, curde e irachene potrebbero annientare lo Stato islamico in poche settimane, liberando Raqqa e Mosul e lasciando alle forze locali il compito di stabilizzare la regione”.

Il problema è, come sempre, politico: nessuno vuole andare da solo, molti non possono, come i francesi, già esposti su altri fronti, ma poi andare insieme risulta ancora più complicato. Ma come scrive l’Economist sul numero in edicola oggi – “How to fight back” è il titolo di copertina su una bandiera francese – le lezioni di Iraq e Afghanistan non sono soltanto negative, anzi per quel che riguarda l’obiettivo specifico di distruggere lo Stato islamico sono positive: “Gli eserciti moderni sono bravi a togliere i jihadisti dai loro territori, anche se poi non sono capaci di ricostruire i paesi”. Soprattutto, conclude il magazine britannico, bisogna proporre un’azione militare “perché l’alternativa è comunque peggiore”.

Categoria Estero

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