La letargocrazia di Merkel

Il filosofo tedesco Sloterdijk, in un saggio su Handelsblatt, spiega cosa si cela dietro il decennio della cancelliera: pragmatismo, indolenza e politica palliativa

di Marco Valerio Lo Prete | 21 Dicembre 2015 ore 21:02 Foglio

Nel 2021 potrà facilmente raggiungere la longevità politica del suo padrino politico, Helmut Kohl

La situazione al momento è tale che possiamo felicitarci col popolo spagnolo per l’alto tasso di partecipazione ma a parte ciò non vedo bene con quale leader politico ci si possa congratulare in questa situazione”. Così la viceportavoce del governo tedesco, Christiane Wirtz, ha risposto alla domanda se la cancelliera Angela Merkel si fosse già congratulata col premier spagnolo, Mariano Rajoy, il cui Partito popolare è risultato primo alle elezioni di domenica ma senza maggioranza assoluta. Merkel è già in tutti i retroscena che vorrebbero i partner europei in pressing per una grande coalizione tra popolari e socialisti a Madrid. Non solo: la cancelliera ha appena festeggiato, lo scorso novembre, i dieci anni alla guida della prima economia del vecchio continente. Insomma, è plausibile che tutto Angela farà fuorché complimentarsi fuori tempo con i colleghi iberici.

D’altronde anche il fatto di rinviare il momento in cui si affrontano determinati problemi è una delle caratteristiche principali della “letargocrazia”, lo stile di governo adottato dalla Merkel secondo Peter Sloterdijk, uno dei più noti filosofi tedeschi contemporanei.

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Nato nel 1947 e laureato nel 1975 ad Amburgo, Sloterdijk in un lungo saggio pubblicato di recente sul quotidiano Handelsblatt ha esaminato i tratti salienti del decennio merkeliano. Inizia con una previsione politica: “Se le cose in Germania continuano come di consueto, la cancelliera dovrebbe essere in grado di fare affidamento sull’elettorato per un quarto mandato, nonostante gli errori irrimediabili già compiuti con i suoi editti sulla politica dei rifugiati. Perché non affidarle poi un quinto mandato? Per quanto possa suonare sorprendente, la cancelliera si è mossa con abilità e senza attirare attenzioni fino a diventare una donna senza concorrenti”. Dopo dieci anni di cancellierato, insomma, “non c’è una svolta” in vista, secondo il filosofo: “Difficilmente chiunque dubiterà del fatto che Angela Merkel, nel 2021, possa raggiungere il suo padrino politico, Helmut Kohl, che rimase al potere per 16 anni. Perché il successo genera successo, Gesù stesso lo sapeva, come riportato da Matteo: ‘Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza’. Quindi non è irragionevole che l’èra Merkel possa durare fino al 2021, forse perfino al 2025. La signora Merkel, figlia di un pastore, sarebbe l’ultima persona al mondo a negare che Gesù avesse ragione”. Una prospettiva di lungo termine che potrebbe allarmare quanti, in Europa, vedono nella cancelliera un avversario ostico. Da sfidare, almeno di tanto in tanto, fosse anche solo a suon di “domande”, come ha precisato di aver fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi al vertice di giovedì e venerdì scorso.

Sloterdijk, sempre nel suo saggio pubblicato dal quotidiano economico e finanziario Handelsblatt, sostiene che “per avvicinarsi al fenomeno Merkel – ammesso che la vicinanza sia un concetto adatto per una personalità così elusiva – dovremmo tornare indietro brevemente al fenomeno che fu Helmut Kohl”. Arrivato a guidare la Germania dell’ovest nel 1982, il politico cristiano-democratico nato nel 1930 a Ludwigshafen in Renania-Palatinato continuò a influenzare direttamente i destini del paese fino al 1999. “Solo in pochi oggi ammetterebbero che egli era già, a suo modo, un politico postmoderno. Kohl fu il co-inventore della politica postmoderna che potrebbe essere chiamata ‘letargocrazia’ – scrive il filosofo autore nel 1983 de ‘Critica della ragion cinica’ – La letargocrazia è il frutto delle nozze tra potere istintivo e letargia. E’ basata sulla realizzazione, solitamente più istintiva che riflessiva, che il potere oggi si fonda, in larga misura, sul fatto di non esercitarlo o sul fatto di esercitarlo soltanto informalmente”. “Lo storico Jacob Burckhardt, alla fine del Diciannovesimo secolo, postulò che il potere, per definizione, fosse un male. (…) Secondo lui, i paesi liberi erano quelli che tenevano sotto controllo, grazie a un insieme di istituzioni e contrappesi, la tendenza del potere a rafforzarsi oltremodo. Tenendo in considerazione l’ipotesi arguta di Burckhardt, è possibile capire come in epoche più recenti le masse possano essere state intellettualmente corrotte. Lì dove si diffonde un flagello emotivo, le masse celebrano i perpetratori del male come se esse stesse potessero partecipare alla frenesia del potere. Kohl raggiunse il risultato di eliminare praticamente il male fondato sull’esercizio del potere dal panorama politico tedesco, all’interno dei confini nazionali così come al di fuori degli stessi. Che il prezzo per ottenere ciò fosse uno stile di governo letargocratico non lo disturbò oltremodo. Questo stile consiste nel ‘covare’ i problemi finché non si risolvono, come diciamo in Germania, e nel trasformare ciò in una vera e propria tecnica di governo. I politici in questo modo evitano sempre più di modellare la politica. Non agiscono, piuttosto reagiscono. Non prevengono, piuttosto sono inorriditi quando la realtà bussa alla porta. Sono lieti di aspettare fino a quando un problema viene percepito così urgentemente dall’opinione pubblica – grazie ai richiami allarmistici dei media – che una qualche azione da parte delle élite diventa inevitabile”.

La figlia politica di Kohl, secondo Sloterdijk, non ha dimenticato la lezione del padre. “Uno dei paradossi della politica postmoderna è che la letargia al potere può obbligare a lavorare 14 ore al giorno, sette giorni a settimana, includendo le visite nei paesi più lontani. Burckhardt intuì anche questo quando notò che la storia spesso richiede un livello sproporzionato di rumore per ottenere relativamente poco”. La dimostrazione contemporanea di ciò sarebbe in tutta una serie di “goffe” espressioni che in futuro saranno ricordate come i “fossili verbali” dell’èra Merkel: transizione energetica, pacchetto di salvataggio, taglio del debito, summit sui rifugiati, Grexit e cultura dell’accoglienza. “Queste creazioni linguistiche – continua il filosofo che insegna alla Staatliche Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe – riflettono l’imbarazzo dei politici postmoderni che non possono offrire molto più che una continua opera di ‘crisis management’. Ciò rivela una sorta di coazione a fare molto a fronte di risultati limitati”. Per usare una metafora, la politica merkeliana è come la medicina palliativa. “La medicina curativa comprende quelle cure che hanno l’obiettivo diretto di ristabilire la salute di una persona. La medicina palliativa è l’insieme di quelle misure che devono ‘mascherare’ condizioni incurabili. Serve cioè a offrire sollievo e tempo senza però promettere una cura. (…) Per dirla in altri termini: la medicina palliativa cerca di far stare il meglio possibile coloro che sono e rimangono malati cronici”. La cancelliera come maestra della palliative politics, insomma: “Il Ventunesimo secolo non può che essere l’èra della politica palliativa, considerato che non possiamo più immaginare un pianeta definitivamente ‘curato’ o una comunità globale che non sia in crisi. Angela Merkel ha già dato il suo contributo fondamentale alla fisionomia della palliative politics”.

Un esempio? L’aver accettato, secondo molti osservatori tedeschi, che l’indebitamento fiscale degli stati sovrani europei possa essere contenuto attraverso una politica monetaria espansiva. Ecco un palliativo in piena regola. “Ma seguire i dettami della medicina palliativa, quindi coprire i sintomi, non è una soluzione permanente. I medici riconoscono che condizioni incurabili, prima o poi, devono avere termine”. Eppure non si può negare che della Merkel si sia ormai sviluppato un culto della personalità: Merkel la donna più potente del pianeta, Merkel la padrona dell’Europa, Merkel che renderà disciplinati i greci, Merkel la criptosocialista, Merkel la madre, Merkel la sfinge, eccetera. “Sono poche le persone in Germania la cui esistenza è stata così sovra-interpretata”. Tuttavia, “come molti altri politici, Merkel ha imparato che buona parte del successo che si raggiunge nella propria vita dipende dal fatto di ignorare i giudizi altrui a proposito di se stessi e del proprio operato. Chiunque arriva al top si è comportato così. Queste persone infatti devono capire che se tendono un dito a coloro che li vogliono tirare giù, rischiano di perdere non soltanto la mano ma l’intero braccio”. Merkel dimostrò di conoscere fin troppo bene il meccanismo, secondo Sloterdijk, nel momento in cui rifiutò di incontrare Juli Zeh, attivista per le libertà civili che due anni fa le scrisse una lettera aperta sulla Die Zeit e presentò le firme di 70.000 concittadini tedeschi critici degli eccessi di sorveglianza da parte delle agenzie statali.

“A differenza del presidente della Repubblica federale tedesca, Joachim Gauck, che incarna l’altra faccia del protestantesimo politico della Germania dell’est, la cancelliera non ha nulla del pathos di una vita in libertà. Se sorprendesse qualcuno dall’altra parte dell’Atlantico a spiare le sue conversazioni private, lei penserebbe: ‘In passato eravamo osservati anche di più, ma siamo pur sempre riusciti a diventare quel che siamo oggi’”. Gli osservatori della politica tedesca concludono spesso che la cancelliera sia la quintessenza del pragmatismo. “Ciò che dimenticano di chiedersi è cosa davvero significhi ‘pragmatismo’. Pragmatismo è la sottomissione delle persone adulte a quello che è considerato il potere della realtà. La realtà, tuttavia, è spesso nulla più che il rottame che rimane di esagerazioni nel frattempo collassate. Da vera figlia della Repubblica democratica tedesca di stampo comunista, Merkel ha sempre saputo fin troppo bene cosa volesse dire vivere sotto le rovine di una ideologia esagerata etichettata come ‘socialismo reale’. Vuol dire tirare avanti con il meno possibile e farsi i fatti propri”. All’autore piace immaginare l’attuale cancelliera, “esempio di pragmatismo femmineo”, come un’ipotetica sorella di Lady Chatterley, protagonista del romanzo di David Herbert Lawrence scritto in Toscana e pubblicato per la prima volta nel 1928: “Il marito di Lady Chatterley, Sir Clifford, diventa paraplegico in seguito a una ferita di guerra, e questa per la moglie diventa la realtà. Lady Chatterley, da coniuge fedele, deve fare i conti con la realtà. E la volontà di far fronte alla situazione non crea forse una morale indistruttibile? Per quanto strano possa apparire, Angela Merkel e la signora inglese hanno questa morale in comune, anche se il tasso di erotismo le distingue. Lo scrittore D. H. Lawrence sintetizzò questa situazione con una semplicità irripetibile: ‘Dobbiamo vivere, non importa quanti cieli ci cadano in testa’”.

In definitiva il “segreto” della cancelliera, secondo il filosofo, è la sua “sincronizzazione profonda con il desiderio dei tedeschi di un qualcosa che raramente hanno provato nel secolo passato. Lei risponde al loro bisogno di normalità. Già oggi si può dire che gli anni del governo Merkel sono stati anni in cui si è celebrato il matrimonio sacro di un’intera popolazione con la normalità. La curiosa celebrazione è stata resa possibile dal fatto che la Merkel, da una prospettiva psicologica, incarna una personalità-contenitore. C’è sufficiente spazio, in un politico-contenitore, per ogni sorta di proiezione da parte degli elettori. Il prezzo di una tale tendenza dei cittadini ad autorizzare la cancelliera a rappresentarli è la depoliticizzazione”. C’è anche questa forma di letargocrazia dietro il potere apparentemente incontrastato della cancelliera tedesca. Lo sappia chi progetta di punzecchiare Angela Merkel e magari di svegliarla da questo decennale pisolino di successo.

Categoria Estero

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