Manuale di Grillonomics

Agenda economica e intellettuali d’area a Cinque stelle. Anche sulle

proposte più “realistiche” (meno tasse e spese, più Rete), i grillini sparano alto, forse troppo

E va bene, anche se hanno ceduto in men che non si dica alle betoniere dei talk show televisivi, prendiamoli sul serio (up to a point, of course). Andiamo a vedere che cosa vogliono i grillini, i militanti, i simpatizzanti, i tecnici d’area, gli intellettuali al seguito, le mosche cocchiere, le salmerie di ogni vincitore. Cosa propongono per i primi cento giorni della nuova legislatura e cosa il Partito democratico può aspettarsi se parte la trattativa come vorrebbe Pier Luigi Bersani? Il programma del Movimento 5 stelle è lungo e articolato quasi quanto quello del Pd. Quindi, non si capisce bene da dove cominciare. Togliamo di mezzo la decrescita più o meno felice, gli assorbenti biodegradabili, le piste ciclabili generalizzate e altre utopiche amenità che fanno parte del medio termine. E, per orientarci, stiamo ai venti punti che Beppe Grillo ha postato nel suo blog. Possiamo davvero seguirli alla lettera? Non esattamente. Stando alle interviste e alle uscite pubbliche sui giornali e nelle tv, ci sono divergenze e non da poco tra le teste d’uovo grilline. Per esempio sul referendum per l’uscita dall’euro.

Giusy Campo, portavoce del Lazio, rimastica la storia del tasso di cambio sbagliato tra euro e lira, senza spiegare quale sarebbe stato quello ideale. E ripete: “Non siamo contro l’Europa, ma contro questa Europa”. Loretta Napoleoni, esperta di terrorismo internazionale, pubblicista ed economista di complemento (si fa chiamare professoressa, ma non lo è; a Cambridge, ha tenuto delle conferenze sul giornalismo investigativo), sostiene che il referendum va fatto, ma non subito, e più come minaccia, perché tornare alla lira sembra troppo persino a lei. Magari un’uscita temporanea tanto per svalutare. Se gli altri lo consentono. E’ totalmente contrario sia alla lira sia alla porta girevole Mauro Gallegati, il più strutturato tra i compagni di viaggio, 55 anni, marchigiano, allievo di Giorgio Fuà ad Ancona e di Paolo Sylos Labini (insomma vecchia sinistra socialista anti craxiana e poi anti berlusconiana), con studi a Stanford e al Mit di Boston, collaborazioni con Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi.

Si parva licet, Gallegati sta a Grillo come Vilfredo Pareto stava a Mussolini. Gallegati dice che lui, Loretta Napoleoni non l’ha mai vista, ma attorno al M5s ormai ruotano in tanti, come le vespe all’odore delle sardine. Tra i troppi che parlano e sparlano, il prof marchigiano sembra quello che ha più testa sulle spalle. E avanza proposte precise. Le più importanti, per la verità, sono idee berlusconiane: via l’Imu dalla prima casa, revisione dell’Irap, due sole aliquote Irpef (25 e 35 per cento). Di matrice vendoliana invece, la superpatrimoniale sulle ricchezze oltre i 10 milioni, una ipotesi in realtà ancora vaga perché oscilla tra il 5 e il 10 per cento.

Ma quanto ci costa la politica fiscale grillina? L’Imu sulla prima casa, ormai lo sappiamo, vale tra i 4 e i 5 miliardi l’anno su un gettito totale che è stato finora di 23 miliardi. Quel che ha stressato i ceti medi non è pagare 600 euro in media per l’abitazione, ma tutto il resto, dalle seconde case ai capannoni. L’imposta più odiata dagli imprenditori è l’Irap che frutta 37 miliardi: basata sul fatturato e non sugli utili, è un disincentivo alla crescita. La promessa di ridurla ha portato nelle file del M5s le partite Iva scontente e deluse dalla Lega e dal Popolo della libertà. In realtà, pochi ricordano che l’Irap ha assorbito altre sette voci tra tasse e contributi, fornendo il 40 per cento dei fondi destinati alla sanità e il 17 per cento delle entrate regionali. E le regioni non vogliono toccarla. Nemmeno quelle leghiste. Dunque, maneggiare con cura.

Quanto alla riforma delle aliquote, la si sente almeno dal 1994 e c’è da dubitare che sia realizzabile entro l’anno. Resta la patrimoniale. La versione Gallegati potrebbe dare un certo gettito, ma resta impraticabile. La versione light del Pd è fattibile, ma non frutta nulla. In entrambi i casi, il gioco vale la candela? Affascinanti le proposte sulla settimana corta: addirittura 30 ore, altro che le 35 ore francesi. Si può fare? Sì se aumenta in modo equivalente la produttività (scende di dieci ore la settimana, sarebbe il 25 per cento). Altrimenti crollano il pil e i salari. Attenti all’effetto boomerang anche per l’abolizione della legge Biagi. Abbiamo visto cosa è successo con la riforma Fornero che ha bloccato la flessibilità in entrata: sono crollati gli ingressi in azienda e la disoccupazione giovanile è esplosa.

Il salario di cittadinanza è un altro punto forte. Ma non si capisce in che cosa consista: è una versione rafforzata dell’Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego) varata dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ed estesa anche all’impiego pubblico? I grillini intendono compensarlo con la fine della cassa integrazione? Si sente parlare di una sostituzione delle pensioni e degli stipendi dei dipendenti statali, ma sarebbe una partita di giro.

L’ala sociale del movimento vuole ripristinare i tagli alla sanità e alla scuola. Sono rispettivamente 14 miliardi entro l’anno prossimo e 3,5 in quattro anni. Così, tra meno fisco e più spese siamo già ad alcune decine di miliardi da trovare subito, entro i primi cento giorni. Come? Con i costi della politica, dice Grillo. Se togliessimo di mezzo i finanziamenti pubblici, tutti i parlamentari, le regioni, le province e il Quirinale, il risparmio sarebbe di 8 miliardi. A fronte di 250 miliardi pagati per le pensioni, 200 per gli stipendi, cento per la sanità e 70 per gli interessi sul debito pubblico.

L’abolizione delle province suscita altri equivoci. Oggi pesano per 12 miliardi, ma  funzioni e costi passerebbero per lo più a comuni e regioni. Con un risparmio tutto sommato piccolo. Immediato sarebbe solo il taglio di 140 milioni per l’appannaggio ai consiglieri, più qualche altra decina di milioni per spese varie. Non molto. E tutto ciò richiede una riforma costituzionale. Si può fare, sia chiaro. Ed è possibile cominciare accorpando e razionalizzando. Ma i benefici veri non si vedranno certo nel 2014. Anno in cui, invece, continuerà a mordere il fisco, sia con un aumento già programmato delle imposte dirette sia con il rialzo dell’Iva di un punto che scatterà a luglio.

A Internet per tutti pensa Gianroberto Casaleggio, perito informatico e guru del Web. Up to a point, anche nel suo caso. Perché l’unica performance professionale finora nota, riguarda Webegg, una società di consulenza con 700 dipendenti (non i diecimila vantati da Grillo). E non è stata quel che si dice un successo. Nata in Olivetti, entrata in Telecom Italia con Roberto Colaninno, accumula buchi di 1 milione 932 mila euro nel 2001 e di 15 milioni 938 mila euro nel 2002, su un fatturato di 26 milioni di euro. E meno 60 per cento dei ricavi nel 2002 rispetto al 2001 sui clienti del gruppo Telecom. Nel 2003 Marco Tronchetti Provera se ne libera insieme a Casaleggio. Beppe Grillo tuona contro Telecom da azionista e da showman. Il luddista che spaccava i computer, adesso darà a tutti banda larga e wi-fi gratuito. Chi paga? Lo stato, naturalmente. Con quali risorse? Sempre il suddetto taglio della politica, ça va sans dire.

Se i grillini s’impantanano in grandi riforme più o meno futuribili, non riescono a portare a casa risultati concreti per i ceti che li hanno votati. La tattica temporeggiatrice, in attesa che i frutti marci cadano dai rami secchi dei partiti, rischia di provocare un’onda di delusione e sfiducia. E anche il M5s finisce nella trappola dei due tempi.

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di Stefano Cingolani, 7/3

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