La ricchezza nascosta dietro la lagna

pauperista degli italiani. Visti da Roma siamo alla fame o quasi.

Poi la Banca centrale tedesca ci ricorda di risparmi e case in abbondanza. Mentre dalle consultazioni che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha intrapreso con la “società civile” (da Roberto Saviano a don Ciotti) continuano a giungere voci di un paese in apparenza sul lastrico e comunque al limite, il sottofondo di giornata non è da meno quanto a social-pessimismo. Ieri l’Istat ha notificato che l’indice di fiducia dei consumatori è nuovamente diminuito a febbraio (a 85,2 da 86 di gennaio), dopo un rimbalzo rispetto a dicembre 2012. Pessimismo che conferma l’allarme del Codacons sul pranzo pasquale: “In calo del 17 per cento la vendita di uova e colombe”, peraltro in una previsione di spesa che supera il miliardo di euro. E che corrobora la previsione della Confcommercio secondo la quale nel 2013 avremo in Italia 4,2 milioni di persone “assolutamente povere”, in netto aumento rispetto ai 3,5 milioni “certificati dall’Istat nel 2011”, il 6 per cento della popolazione. Questa la situazione vista da qui, mentre sui mercati si riaffaccia l’ombra di un nuovo declassamento di Moody’s causa incertezze sulla formazione del governo. Osservata da Francoforte, dove ha sede la Bundesbank, l’Italia ha invece tutt’altre fattezze. Lo studio “Nuclei famigliari privati e loro finanze” reso noto il 21 marzo dalla Banca centrale tedesca evidenzia infatti come italiani e spagnoli, ma anche i francesi, siano in media ben più ricchi dei tedeschi, e questo grazie ai loro risparmi e soprattutto alla proprietà immobiliare. Nel clima concitato del prelievo forzoso sui depositi ciprioti, e mentre il capoeconomista della Commerzbank Jörg Kramer suggeriva di applicare al nostro paese una patrimoniale del 15 per cento sulle finanze private, il report della BuBa ha scatenato sospetti su presunte mire tedesche in stile bottino di guerra. In realtà la Germania ha fotografato una situazione che la Banca d’Italia evidenzia da tempo, e che è alla base di un paradosso economico, fiscale e sociale: siamo un paese di poveracci quanto a denunce dei redditi, mentre ce la passiamo bene, anzi benissimo, quanto a proprietà famigliari e personali. L’indagine Bundesbank, basata su un campione di 3.565 nuclei familiari e 6.661 persone sopra i 16 anni, evidenzia come i patrimoni netti privati tedeschi (detratti prestiti e mutui) siano di 195.200 euro, contro i 229.300 della Francia ed i 285.800 della Spagna. Manca il dato italiano, cifra che però è ufficialmente indicata dallo studio “I risparmi delle famiglie” pubblicato annualmente dalla Banca d’Italia: 350.000 euro a nucleo. Considerando invece i valori mediani, riferiti cioè a chi sta nella fascia media di ricchezza, le famiglie tedesche godono di beni mobili e immobili per 51.400 euro, rispetto ai 163.900 dell’Italia e ai 178.300 della Spagna. La BuBa guarda anche in casa degli austriaci, un paese socialmente affine: e ne ricava che anche loro stanno meglio, con asset patrimoniali mediani di 76.900 euro. Nelle slide di presentazione dello studio, il quale a sua volta anticipa una rilevazione che la Bundesbank sta conducendo in tutta Europa, si enfatizza come solo il 44 per cento dei tedeschi abiti in una casa di proprietà rispetto all’83 per cento degli spagnoli e al 69 degli italiani. Da qui la maggior ricchezza patrimoniale delle famiglie latine.

E’ una situazione opposta e speculare a quella dei redditi. Il dipartimento delle Finanze ha appena reso noto che nel 2011 il reddito medio dichiarato dai 41,3 milioni di soggetti Irpef è stato di 19.655 euro, mentre almeno il 50 per cento dei contribuenti dichiara meno di 15.723 euro. Poi ovviamente ci sono quelli abitualmente definiti “paperoni”: 428 mila persone con reddito da 100 mila euro e oltre. In media il 20 per cento meno che in Germania, divario che raddoppia se si guarda alle retribuzioni: in base a Eurostat la media nazionale italiana (23.406 euro lordi) è il 57 per cento di quella tedesca (41.100 euro). D’accordo, c’è il cuneo fiscale. Ma non solo. Come osservato da anni dal Censis di Giuseppe De Rita, e come più recentemente hanno provato a dimostrare sia Giulio Tremonti, sia la commissione incaricata di disboscare la giungla di agevolazioni fiscali affidata a Vieri Ceriani – economista di Bankitalia allievo di Federico Caffè non sospettabile di simpatie destrorse – e come infine ha detto in maniera poco politically correct il direttore dell’Agenzia delle entrate Attilio Befera, “la gran parte degli evasori si annida tra i poveri e tra i finti poveri”. In altri termini, con le dovute eccezioni e i casi limite, in Italia il pauperismo è una medaglia, e spesso essere poveri conviene. Lo dimostra su tutti il meccanismo dell’Isee, indicatore della situazione economica equivalente, indicatore in base al quale vengono distribuite agevolazioni fiscali di ogni tipo, dalle rette scolastiche alle cure mediche, parametrate sul reddito, e solo in misura percentuale sul patrimonio, principalmente quello finanziario. Da qui innanzi tutto l’esaltazione dei dati negativi. Ma non solo.

Come traspare anche dall’editoriale di Dario Di Vico sul Corriere della Sera di ieri, sia il centrosinistra sia il centrodestra hanno avuto finora l’interesse a coltivare le difficoltà dei rispettivi bacini elettorali di presunto riferimento: ministeriali e dipendenti privati da una parte, artigiani e professionisti dall’altra. Con rispettive controparti di associazioni e corporazioni, e su tutte la Confindustria. Lo si è visto nelle consultazioni di Bersani, con il numero impressionante di sigle invitate, tutte immancabilmente portatrici di disagio sociale e povertà reddituale. Così se la Confindustria di Giorgio Squinzi può chiedere la (giusta) riduzione dell’Irap non tanto per finanziare la competitività ma come unica via per pagare meglio i dipendenti – in pratica il rinnovo dei contratti finanziato per via fiscale –, trovandosi in questo perfettamente allineata ai sindacati, ecco le associazioni professionali denunciare, in base agli studi di settore 2011 e alle previsioni sul 2012, cali di imponibile che arrivano al 25,9 per cento rispetto al 2007 per ingegneri e architetti e al 20,9 per gli avvocati. Fra tanti poveracci soltanto i commercialisti sono in trend positivo: un caso? Il Foglio, 26/3

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