La finanza globale è in stallo, chi può darle di nuovo la scossa?

Uno studio McKinsey fa la diagnosi alla globalizzazione finanziaria e pensa

a una cura. Il precedente a Cipro

Fino a trent’anni fa la globalizzazione della finanza sembrava inarrestabile. Eppure è un processo che si è fermato, dopo quattro anni di crisi economica globale. Lo certifica un rapporto della società di consulenza americana McKinsey dal titolo “Financial globalization: Retreat or reset?”, pubblicato giovedì scorso. I sei autori (americani, europei e asiatici) si chiedono quale sia il possibile sviluppo, dando per assodato un panorama statico, dal momento che la crescita delle transazioni finanziarie, sperimentata dal 1980 al 2007, si è bloccata. Certo, i flussi di denaro si sono spostati nei paesi emergenti, dove la finanza prima non era così sofisticata come oggi, ma torneranno in occidente? In altre parole, vedremo ancora l’espansione delle transazioni finanziarie, e degli strumenti a esse correlati, oppure la crescita dei mercati, in particolare quelli asiatici, è il punto di arrivo di un processo che sembrava infinito grazie a un mondo fluidificato da Internet? Una risposta definitiva non c’è perché siamo all’apice del cambiamento, in fase di stallo appunto. Esistono semmai alcuni scenari possibili, ma prima è utile capire come si è arrivati a questo punto.

Dice lo studio McKinsey: “Dal 1980 una mobilità dei capitali senza precedenti ha collegato i mercati internazionali in un ancora più interconnesso sistema globale. Questo processo si è prepotentemente velocizzato con la creazione dell’Unione monetaria e di una moneta unica in Europa, ma il fenomeno dell’integrazione finanziaria si è diffuso in tutto il mondo. Quando è esplosa la crisi, nel 2008, le intricate connessioni del Web hanno diffuso gli choc ovunque molto velocemente. Nel bel mezzo della crisi, comunque, c’è stato un arretramento. Il flusso di capitali da paese a paese è collassato e oggi è inferiore del 60 per cento rispetto ai livelli pre-crisi”. Anche altri dati aiutano a fotografare l’immobilismo: “Gli asset finanziari – cioè il valore delle capitalizzazioni di Borsa, le obbligazioni governative e societarie, e i prestiti – sono passati dai 12 mila di dollari del 1980 ai 206 mila miliardi nel 2007. Le transazioni sono cioè arrivate al 335 per cento del pil globale dal 120 per cento di vent’anni prima. Ma la crescita si è fermata. E oggi il valore degli asset finanziari è arrivato a 225 mila miliardi di dollari”, si legge ancora nel corposo rapporto McKinsey. La cifra è di poco maggiore rispetto all’anno antecedente il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, considerato il momento di rottura, ma in rapporto al pil globale, anch’esso diminuito, la finanza nel 2012 “pesa” sempre meno e, da quattro anni a questa parte, l’espansione è stata “anemica”, pari all’1,9 per cento (poco se si pensa che dal 1990 al 2007 la crescita è stata del 7,9). “La perdita di vigore non è confinata alle economie avanzate – avvertono i ricercatori – anche i mercati emergenti hanno risentito della crisi, ma, a fare un raffronto, la perdita subìta è in media dimezzata”. McKinsey non nasconde che l’elefantiasi sia stata tra le cause della crisi finanziaria e che, quindi, “un rallentamento della crescita è, in una certa misura, una correzione salutare”. Il problema, però, è capire a che cosa porterà questo processo. Gli analisti ipotizzano due scenari, viste “le ramificazioni della crisi finanziaria e l’introduzione di nuove regole”. Il primo prevede la prosecuzione dell’arretramento della globalizzazione con “uno scarso sviluppo dei mercati finanziari e una ridotta circolazione dei capitali”. Sebbene questo processo “riduca i rischi di future crisi finanziarie, una crescita economica più lenta potrebbe diventare un ‘new normal’”, cioè una condizione permanente, per cui la crescita degli asset finanziari, in rapporto al pil, sarà “piatta o declinante fino al 2020”.

Il secondo scenario è quello di un “reset”, che implicitamente considera l’ipotesi di una ripartenza. McKinsey parte dal presupposto che l’odierno dissesto dell’economia porterà a un ripensamento del settore bancario e finanziario (con meccanismi di risoluzione delle crisi bancarie, cooperazione tra i regolatori nazionali, supervisione dei rischi sistemici). Un “sistema rivitalizzato che contempla una sana competizione tra gli intermediari finanziari al servizio dei risparmiatori e degli obbligazionisti. I capitali – in un mondo siffatto – affluirebbero dove c’è bisogno di investimenti”. E’ un futuro possibile, frutto di una contrazione del sistema bancario a favore dell’espansione di forme di prestito differenti, come attraverso i fondi d’investimento e le obbligazioni societarie: segmento, quest’ultimo, in gergo i corporate bond, che avrebbe un potenziale di crescita da mille miliardi di dollari, calcola McKinsey. Uno sviluppo positivo per gli analisti, a sostegno della teoria del “ribilanciamento” come prodromo alla ripartenza. I mercati azionari sono cresciuti in maniera esponenziale nei paesi emergenti, dove pesano per il 44 per cento del pil (contro l’85 in quelli industrializzati), molto rispetto al credito personale e alle obbligazioni che insieme contano “solo”, dice McKinsey, per il 76 per cento del pil (contro il 146 per cento nelle economie avanzate). Per questo se “i paesi emergenti convergessero a riempire il vuoto lasciato da quelli sviluppati vedremmo crescere la mole dei loro asset dai 43 mila miliardi attuali ai 125 nel 2020”. Tra questo scenario e la realtà c’è un abisso. Tant’è che McKinsey consiglia di continuare con la regolamentazione, la de-bancarizzazione del sistema. Il dibattito, insomma, è aperto. Resta il fatto che McKinsey ha sfatato il mito dell’espansione perpetua della finanza.

La selezione naturale per le banche

A sfatare un altro mito economico ci hanno pensato due analisti di Trend Macro spiegando sul Wall Street Journal di lunedì come la crisi di Cipro dimostri il “rifiuto rivoluzionario  del too big to fail”. Le banche cipriote, infatti, non sono state considerate troppo grandi, o sistemiche, per fallire. “Forse questa rivoluzione si espanderà anche negli Stati Uniti”, dove il too big to fail è il paradigma di ogni legislazione dopo lo choc Lehman. “Se alla selezione naturale fosse permesso di funzionare anche nel sistema bancario, gli incentivi perversi che hanno trattenuto i capitali dall’essere investiti nella crescita sarebbero cancellati” contribuendo a “trasformare una debole ripresa in una vera espansione”, dicono gli esperti.

di Alberto Brambilla   –   @Al_Brambilla

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata