Psicanalisi breve della sinistra italiana che soccombe

al successo.  L’angoscia attanaglia il Pd.

Dopo essersi brillantemente fottuto nelle ultime elezioni, a quelle di giugno grazie a Renzi potrebbe stravincere e il suicidio a quel punto diverrebbe difficile, molto difficile; occorrerà inventarsi qualcosa di estremo, che so, una scissione perlomeno, sempre che non si punti all’autoimmolazione buddista. Che angoscia! Fin da ora i capi storici del partito si stanno chiedendo come fare per perdere la posta senza perdere la faccia. E’ inutile che la menino con il solito ritornello che la loro missione è quella di risanare l’Italia e quindi il sacrificio bla bla, non è vero, non hanno sanato un accidenti. Ma non è vero nemmeno quel che dice la destra, che l’unico pensiero della sinistra è di far fuori il Cavaliere. Fosse così ci sarebbe riuscita, ha avuto mille occasioni ma ha preferito erotizzarsi con le Minetti e amiche, erotismo di seconda mano, la prima l’ha passata il Cav. La vera, unica, vocazione della sinistra è il suicidio, sempre e comunque, in un modo o nell’altro. Ai tempi dei Padri Fondatori il suicidio andava a braccetto con l’omicidio, nessuno ha ammazzato tanti comunisti quanto Stalin; divenuto borghese e democratico, il comunismo ha abbandonato l’omicidio suicida optando per il puro suicidio, non plateale ma indolore, alla chetichella, salvando le apparenze: “Noi ce l’abbiamo messa tutta, ma è accaduto l’imprevedibile”, che puntualmente li beffa. Imprevedibile per la sinistra è che gli avversari siano vivi; invece è proprio così: saranno pure mascalzoni ma sono vivi e pertanto imprevedibili, mentre la sinistra è del tutto prevedibile e prevista grazie alla scia di noia che si porta dietro e di cui fa bella mostra; noia che è il fiore all’occhiello della paranoia, la presunzione di sapere come sono fatte le cose e come vanno, nel disprezzo dell’altro, un imbecille. Paranoia è pensare che si può fare qualsiasi cazzata che tanto funziona e sarà premiata, e così si spacciano le primarie per resurrezione quando invece sono sepoltura, e così ci si sforza di credere che Bersani e Renzi siano la stessa persona e che la gente non se ne accorga, laddove persino il loro storico e istituzionale riferimento, lui sì desideroso di vita, Napolitano, è disgustato da tanta voglia di morte e decisamente attratto dal Cavaliere, dapprima come rivale con cui scambiare violenti colpi di fioretto, poi come interlocutore, infine come partner, chissà.

Appena si accorge di poter vivere, la sinistra si affretta a morire. V’è in lei quello che Ivan Morris attribuì ai kamikaze, l’idea della “nobiltà della sconfitta”. L’antica accusa alla ricchezza si è progressivamente spostata nell’accusa alla vittoria, considerata qualcosa di prepotente, arbitrario, sporco, demoniaco. Una proiezione: storicamente i comunisti sono stati prepotenti e satanici, ora del potere hanno timore e l’allontanano, non lo tollerano, preferiscono regalarlo a quel padre onnipotente che un tempo era l’amato Stalin e nel presente, nell’inversione allucinatoria, è identificato nell’odiato Cavaliere. Costui sarebbe il freudiano “padre dell’orda”, dedito solo al proprio sadico godimento. La vittoria per la sinistra si riduce così a una masturbazione che non può tradursi nel reale. Ne parla Freud in “Coloro che soccombono al successo”: quando stanno per raggiungerlo o addirittura lo colgono, vi si sottraggono rifugiandosi in inconscie espiazioni di antichi delitti.

Tuttavia con l’allontanarsi nel tempo dello spettro dell’infame Padre Fondatore, il senso di colpa che scaturisce dall’idea di averlo amato ma anche ucciso, abbandonato, evapora, trasformandosi in qualcosa di più sedato che però la rievoca: la rivendicazione. Tuonano gli ex comunisti contro i faccendieri e i nullafacenti, ma sono loro a vivere di rendita, altro che Unipol e Monte dei Paschi è l’arroganza la loro inesauribile banca. Gli ex comunisti rivendicano quel che pensano spetti loro di diritto, il potere, perché sono i migliori, i più degni in tutto; e poiché di diritto tutto loro spetta non fanno granché per procurarselo, attendono che la signora Etica e sua sorella Estetica glielo offrano su un piatto d’argento, meglio se liberty, possibilmente dello squisito Philippe Wolfers. Disdegnano le furbate e i colpi bassi; disdegnano anche quelli alti, disdegnano tutto, anzi, per ostentare quanto sono sicuri del loro diritto e quanto ciecamente confidino nella giustizia della Storia e dell’Etica, si premurano di dare dei vantaggi all’avversario, a sostare nell’ozio ridendo di lui. Giocano senza portiere e apposta sbagliano i rigori. Quando però l’arbitro fischia il pareggio s’incazzano come bestie, dicono che è stato tutto uno scherzo. La vittoria, sostengono, non è dei numeri ma della virtù, e loro ne hanno da vendere mentre gli avversari sono fatti fugacemente, e un giorno il Padre dell’Orda li fa un altro li disfa, sono burattini ipnotizzati, telecomandati. Di marmo, invece, sono fatti gli uomini della sinistra, eredi della filosofia classica tedesca con un pizzico di Heidegger che fa tanto chic, giusto per romperci i coglioni quasi ogni giorno sui massimi quotidiani nazionali. Pubblicate piuttosto i libriccini di Amélie Nothomb, lo strepitoso “Barbablù” appena uscito nelle edizioni Voland, sulfurea disintossicazione da tutte le filosofie dello spirito.

Ebbene sì, per il Pd la sconfitta è la migliore vittoria. Gli avversari li guardano un po’ stupiti, un po’ preoccupati: “Che si fa con un simile partito? Se andiamo insieme al governo, il giorno dopo ci tocca fargli la respirazione bocca a bocca. Tant’è. Papa Francesco dà esempio di carità estrema e sebbene non siamo proprio dei santi non possiamo tirarci indietro. Ma non è che quelli tutt’a un tratto s’intirizziscono nel rigor mortis e ci mozzano la lingua?”.

di Umberto Silva, Quotidiano, 8/4

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