Prodi, servito a niente Il potere lobbistico dello

sconfitto.  Iri, Fiat, grandi banche, soci stranieri, inutili

Il volto di Romano Prodi è talmente nuovo che ieri è stato stracciato nella corsa al Quirinale come nemmeno Franco Marini. Lui che nel 1978 (secolo scorso) era già ministro dell’Industria nel quarto governo Andreotti. Lui che poteva confidare in un gran côté lobbistico, un blocco di poteri che dovevano fargli da combustibile per la grande scalata. Certo, quella stessa rete di influenza lo rende anche bersaglio di qualche antipatia pesante. Il dossier prende inizio dalla presidenza prodiana dell’Iri, su nomina di Giovanni Spadolini, nel 1982. Tre anni dopo Prodi cerca di privatizzare la Sme a beneficio di Carlo De Benedetti (Buitoni) per 500 miliardi di lire, ma lo fa pasticciando: avverte il cda ad accordo raggiunto e, a pochi minuti dall’entrata in vigore del contratto con CDB, non sa gestire l’arrivo di altre proposte (Unicoop, Lega Coop, Cofima: tutte superiori a quella iniziale di Buitoni). Risultato: il governo annulla la vendita (il ricorso di Buitoni avrebbe dato vita a una nota coda processuale). Prodi ci riprova nel 1993, al suo secondo mandato all’Iri, e questa volta vende la Sme alla cordata di Carlo Saverio Lamiranda e Gs-Autogrill. Il ricavato, 2.044 miliardi (lire), verrà poi giudicato dalla Corte dei Conti “del 30 per cento superiore” a quanto Prodi avrebbe ricavato da De Benedetti, che non hai mai dimenticato quell’infortunio, anche perché la serie di successive vendite frazionate (Italgel e Cirio-Bertolli-De Rica) avrebbe fruttato a Lamiranda plusvalenze clamorose. Amici delusi, nemici in vista. Fra i non amici di Prodi si contano poi i “cucciani” di Mediobanca, penalizzati dalla mancata privatizzazione delle Banche d’interesse nazionale (1989-1992), risoltasi nella formazione di colossi insidiosi come Capitalia. La stessa meccanica, durante il secondo governo Prodi, consente alla Comit di fondersi con il San Paolo di Torino dando vita a Intesa Sanpaolo (capitanata dal primo sponsor di Prodi: il banchiere Giovanni Bazoli, che insieme ai colleghi Corrado Passera, Enrico Salza, Pietro Modiano e Aelssandro Profumo di Unicredit avrebbe poi sostenuto Prodi alle prime primarie dell’Unione nel 2005). Tra le conseguenze dell’operato prodiano c’è la perdita di centralità della vecchia guardia in Mediobanca e l’ingresso impetuoso di soci stranieri.

Anche la vicenda Alfa-Fiat-Ford ha a che fare con gli stranieri, ma stavolta Prodi, signore dell’Iri, irrita gli americani. Nel 1986 decide di vendere l’Alfa Romeo alla Fiat e lo fa malgrado incomba un’offerta largamente migliore da parte di Ford. L’ambasciata americana fa trapelare sorpresa e delusione. Tarda sarà l’autodifesa prodiana (“volevo vendere l’Alfa alla Ford, fecero di tutto per impedirmelo e ci riuscirono”), e anche smentita da Fabiano Fabiani, ex ad di Finmeccanica a capo della delegazione che trattava la casa di Arese: “Non ho percepito un’opposizione di Prodi”. I numeri dicono che Ford aveva offerto 4.000 miliardi di lire, investimenti per altri 4.000, acquisizione graduale in otto anni. La Fiat vince con 1.050 miliardi in cinque rate senza interessi. L’esborso finale calcolato dalla Corte dei Conti e messo a bilancio da Fiat è di 300-400 miliardi. Altra intesa Prodi-Agnelli è nell’asse Italtel (Iri) e Telettra (Fiat): Fiat ne reclama e ottiene la fusione, nasce Telettra (1990) che passerà alla Alcatel, mentre l’intera area telefonica dell’Iri, la Stet, verrà privatizzata, con Prodi a Palazzo Chigi (1997), a beneficio di un elenco selezionato di azionisti privati, con capofila gli Agnelli. Quanto a Telecom, finita nelle mani di Roberto Colaninno non appena defenestrato Prodi dalla presidenza del Consiglio (protagonista: Massimo D’Alema), al ritorno del prof. a Palazzo Chigi (2006) diventerà oggetto di una guerra furibonda tra Tronchetti Provera (subentrato coi Benetton nel 2001) e i prodiani come Angelo Rovati, gran tessitore del clan bolognese (è scomparso ieri), chiamati a realizzare lo scorporo della rete. Tronchetti parla di “esproprio” e si dimette dalla presidenza (lo sostituisce l’avvocato Guido Rossi, pezzo forte dell’establishment) e si trova costretto a vendere a una cordata italo-spagnola in cui gli amici di Prodi sono ben rappresentati (Mediobanca, Generali, Intesa, Sintonia e Telefonica). Dopo un interregno di Gabriele Galateri (casa Fiat), l’amministrazione della società torna nelle mani di Franco Bernabè, il capo azienda che anni prima aveva tentato di ostacolare l’ingresso del dalemiano Colaninno. La famiglia Benetton non ha perdonato a Prodi la spregiudicatezza nel trattare affari italiani con amici stranieri, per lo più iberici. Lui ha risposto nervoso: “Con la Spagna non c’è alcuna intesa per spartirsi i campioni nazionali, mentre restiamo apertissimi a tutti i capitali esteri da qualsiasi parte provengano”. La frase, pronunciata l’8 maggio 2007 al convegno di Business International, culminava con la rivendicazione d’aver risanato i conti pubblici “in appena dodici mesi”.

La Corte dei Conti smentirà Prodi con un documento pubblicato nel febbraio 2010: è innegabile, sì, il recupero di redditività delle aziende passate ai privati; ma è dipendente dall’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, tutte al di sopra dei livelli medi europei. Senza contare “l’incerto monitoraggio” delle privatizzazioni e la “scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni”. Questo potrebbe essere considerato il sigillo dei giudici contabili sulla vicenda prodiana, una vicenda politico-lobbistica non chiusa, ma rampognata a dovere ieri dalle Camere.

di Alessandro Giuli   –   @a_g_giuli

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