La produttività è fottuta. Storia esclusiva:

Cgil e padroni hanno svuotato la norma Monti-Fornero. Surrettiziamente

Un’ordinaria storia di corporativismo italiano, ai tempi della crisi economica più grave che il mondo occidentale abbia attraversato dagli anni Trenta a oggi, è di per sé un fatto straordinario. L’ennesimo episodio di concertazione camuffata tra burocrazie industriali e sindacali, con l’obiettivo principale di attingere ai fondi pubblici senza accettare di modificare nulla del modo di essere imprenditori o lavoratori, potrebbe apparire incomprensibile a chiunque senta ripetere continuamente che fare “sacrifici” è necessario. Incomprensibile per chi magari si sia convinto che un’Italia in stagnazione da 25 anni non può essere soltanto colpa di Lehman Brothers e dintorni. Tuttavia, per quanto straordinaria e incomprensibile possa sembrare, la storia della detassazione del salario di produttività, approvata dal governo Monti nel dicembre 2012, è l’ulteriore riproposizione dello schema “tutto cambia affinché nulla cambi”. A costo anche di tenerci rassegnazione e stagnazione in abbondanza. Protagonisti della vicenda – per come l’ha ricostruita il Foglio – sono la Confindustria e la Cgil, con la compartecipazione dei sindacati detti “riformisti” (Cisl e Uil) e qualche omissione del governo dei tecnici appena archiviato.

Andiamo per ordine, torniamo all’origine di una delle principali riforme tentate dal governo Monti, insediatosi nel novembre 2011 al culmine della tempesta finanziaria. Dopo la riforma delle pensioni del dicembre 2011 e la riforma del mercato del lavoro del marzo 2012, è infatti sul dossier “produttività del lavoro” che il governo dei tecnici si è cimentato dal settembre scorso. Lo ha fatto in linea con le analisi dei principali economisti e organismi internazionali che proprio nel mancato aumento della produttività riconoscono una delle ragioni della nostra mancata crescita. Nel settembre 2012, dunque, l’allora presidente del Consiglio propose alle parti sociali di trovare un accordo per rilanciare la competitività del sistema produttivo italiano; se industriali e sindacati ce l’avessero fatta entro il 18 ottobre, l’esecutivo avrebbe allora offerto in cambio risorse per il mondo del lavoro. Allettante, soprattutto in tempi di cordoni della borsa allacciatissimi, o no? Eppure da subito fu chiaro che incentivare imprenditori e lavoratori a produrre di più e meglio, pur nella libertà di decidere “come” all’interno delle singole aziende, era visto come un affronto da pezzi dell’establishment italiano. La scadenza del governo infatti non fu rispettata dalle parti sociali, l’intesa arrivò soltanto a fine novembre e per di più senza la firma della Cgil. Susanna Camusso, segretario generale del sindacato di Corso Italia, in quei giorni preferiva attaccare frontalmente il governo, convocare manifestazioni di piazza (per il 14 novembre), salvo poi lamentare l’esclusione dal “tavolo” e infine commentare duramente l’accordo raggiunto da esecutivo, Confindustria, Rete Imprese Italia, Abi, Coop, Ania, Cisl e Uil. La Cgil imputò al governo Monti di essersi intromesso indebitamente nel dialogo tra corpi intermedi, di aver sabotato il contratto nazionale, di stare attentando ai diritti dei lavoratori (incentivando per esempio una maggiore flessibilità dei turni e il demansionamento, cioè la possibilità di cambiare ruolo a prescindere dal tipo di contratto di assunzione). “E’ stata scelta una strada sbagliata, per cui il contratto nazionale non tutelerà più il potere d’acquisto dei lavoratori”, commentò la Camusso. E ancora: l’intesa “è coerente con la politica del governo che scarica sui lavoratori i costi e le scelte per uscire dalla crisi”. Un’accusa non da poco, che però costringe oggi a domandarsi: perché allora la Cgil quell’intesa-che-scarica-sui-lavoratori-i-costi-e-le-scelte-per-uscire-dalla-crisi, sì proprio quella, ha poi deciso di firmarla il 24 aprile scorso, e cioè nemmeno due settimane fa?

La prima ipotesi, avallata da alcuni parlamentari che sostennero allora la detassazione per i salari di produttività, è che il “niet” della Cgil avesse ragioni esclusivamente politiche: andati via Mario Monti e il suo ministro del Lavoro, Elsa Fornero, oggi si può tornare a discutere e a firmare tutto. Il ragionamento tiene, rende l’idea dei giochetti politicisti cui sono sottoposte le riforme strutturali in Italia, e non è del tutto infondato. C’è però un’altra ipotesi, avallata dagli ambienti Cgil, che non esclude del tutto la prima spiegazione ma obbliga anche a fare i conti con l’abitudine concertativa che tiene uniti Confindustria, sindacati e governo, e che secondo il premio Nobel per l’Economia Edmund Phelps è da decenni una delle cause principali del declino italiano. Da dicembre a oggi, secondo questa ricostruzione, a cambiare non sarebbe stato (solo) l’atteggiamento della Cgil, ma il contenuto stesso della riforma Monti-Fornero per la produttività. Dietro le quinte, insomma, quell’intesa approvata dal “governo dei poteri forti” – come veniva spesso etichettato l’esecutivo dell’ex presidente della Bocconi – sarebbe stata edulcorata, modificata, addirittura svuotata, per renderla digeribile al sindacato più oltranzista.

Se non ci credete, iniziamo a leggere le carte diffuse a uso interno dalla dirigenza di Corso Italia per spiegare “a tutte le strutture Cgil” il senso di una svolta inattesa. Il 4 aprile, in una nota interna, la Cgil spiega che “la Circolare interpretativa del ministero del Lavoro e dell’Agenzia delle entrate del 3 aprile (…) risulta in effetti ampiamente rimaneggiata rispetto ai contenuti e all’impostazione del decreto”.

Dopo l’intesa di novembre, infatti, era seguìto un decreto ministeriale del 22 gennaio – firmato da Monti e Fornero – per attuare le “misure sperimentali per l’incremento della produttività” e stanziare 1,6 miliardi di euro per le detassazioni dei salari di produttività nel 2013 e nel 2014. Poi occorreva una circolare per definire le modalità di erogazione dell’agevolazione. A proposito di questa circolare, firmata il 3 aprile da un direttore generale del ministero del Lavoro – mentre il governo Monti era già dimissionario e dedito soltanto agli “affari correnti” –, la Cgil rivendica: “Abbiamo contribuito nel limite del possibile alla definizione della Circolare attraverso una serie di proposte modificative e integrative, in più punti”. Primo: se l’obiettivo di Fornero era di non distribuire fondi a pioggia, ma di legare la certificazione di “maggiore produttività” e la concessione della detassazione al rispetto di almeno “tre” nuovi e rigorosi criteri, ecco che il tandem Cgil-burocrazia ministeriale ha annacquato il tutto. Come?

Innanzitutto richiamando esplicitamente il rispetto dello Statuto dei lavoratori, che comunque sarebbe stato tenuto in conto essendo “legge”, a fianco delle disposizioni sul demansionamento (proibito proprio da una norma dello Statuto giudicata “datata” da molti esperti del diritto del lavoro). Poi, soprattutto, consentendo che la “detassazione delle voci relative alle prestazioni di orario” facesse storia a sé: con un colpo solo, d’ora in poi per accedere ai fondi dello stato (in base al cosiddetto “secondo binario”) sarà sufficiente “un solo indicatore per la definizione dei premi di risultato” invece che tre. Nel merito: grazie alla Cgil, nessuno dovrà più distribuire ferie in modo più flessibile, impiegare nuove tecnologie per controllare l’ambiente di lavoro o spostare un dipendente da una mansione all’altra (soprattutto per gestire l’innovazione tecnologica). Basterà ritoccare un po’ gli orari di lavoro, e via con meno tasse.

Non è finita qui. Il 24 aprile, a Roma, i rappresentanti di Confindustria, Cgil, Cisl e Uil si sono incontrati per firmare un documento privato in cui compare l’impegno a rispettare, sempre e comunque, “gli obblighi di contrattazione previsti dal Ccnl (Contratto collettivo nazionale di lavoro, ndr) applicato in azienda”. Si dice “sì” alla contrattazione aziendale e territoriale di cui si discute da anni, insomma, ma sempre con la possibilità di invocare le regole nazionali in caso di dubbio o contestazione. (Fa fede cioè quell’intesa interconfederale del giugno 2011 che, nata sull’onda dei referendum voluti da Sergio Marchionne nelle fabbriche per avallare i contratti aziendali, costituì  un passo in avanti ma non bastò a evitare che Fiat abbandonasse polemicamente Viale dell’Astronomia). La Cgil, nei suoi documenti interni, si rallegra per il nuovo riferimento “esplicito” al Ccnl (e ammette pure che Confindustria accetta “il livello territoriale” di contrattazione “unicamente (…) allo scopo di estendere la platea dei lavoratori beneficiari della tassazione”).

Questa storia, nascosta ma fino a un certo punto, sulla stampa italiana non l’avete letta. Nessuno si è interrogato su cosa davvero abbia spinto la Cgil a cambiare linea, due settimane fa, sulla riforma pro produttività di Monti e Fornero. Nessuno ha descritto gli smottamenti confindustriali. Il Sole 24 Ore, il 25 aprile, celebrava anzi “il buon segnale per le relazioni industriali”. Perché non c’è abbraccio concertativo che tenga se Confindustria e Cgil non marciano unite. Resistendo alle riforme più radicali e intonando la lagna pur di mettere le mani sui soldi del contribuente. Senza condizioni o quasi, ovviamente.

di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp

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