Siria, strike e stragi casa per casa

L’imbarazzante Carla Del Ponte sul sarin e l’eccidio dei sunniti.

Analisi a freddo delle bombe israeliane

Domenica Carla Del Ponte, magistrato svizzera e membro della Commissione delle Nazioni Unite che indaga sulle violazioni dei diritti umani in Siria, ha detto alla Radiotelevisione svizzera che ci sono “sospetti forti, concreti” che gli “opponenti” (così nell’intervista in italiano) hanno usato il gas nervino sarin. L’affermazione è stata subito ripresa dai media di tutto il mondo e anche in Italia: “L’autorevole magistrata sostiene che i ribelli e non il governo siriano usano il gas nervino”. Lunedì però, nel primo pomeriggio, la Commissione dell’Onu ha smentito: non ci sono prove sull’uso di armi chimiche da entrambe le parti, governo e ribelli. Del Ponte aveva fatto la dichiarazione non impeccabile – “sospetti concreti”? – sulla base di alcune testimonianze raccolte in Turchia che dice di avere letto in anticipo in un rapporto dell’Onu, e che però non sono definitive e sono contraddette da altre testimonianze. Le Nazioni Unite a fine marzo hanno creato un team indipendente guidato dallo scienziato svedese Ake Sellstrom per indagare sulle armi chimiche – di cui Del Ponte non fa parte – che in questo momento è parcheggiato a Cipro. Assad ha invitato le Nazioni Unite a indagare sugli attacchi chimici in Siria, ma poi ha cambiato idea e ha sbarrato l’accesso alla squadra, che comunque dovrebbe consegnare un rapporto alle Nazioni Unite il 3 giugno. La dichiarazione di Del Ponte ha aggiunto confusione a uno stallo complicato: le notizie di attacchi con armi chimiche in Siria da parte del governo potrebbero motivare una risposta militare americana e in effetti sono già arrivate, ma ancora non sembrano convincenti a sufficienza per la Casa Bianca.

Quello che è certo, invece, è che cinque giorni fa le milizie di Assad hanno “ripulito e liberato” dai sunniti – per usare le loro parole – al Bayda e Ras al Naba, due piccoli centri attaccati alla città di Baniyas, sulla costa. L’enclave sunnita era una macchia vistosa sulla mappa di una zona completamente controllata dalla minoranza alawita, e come tale è stata trattata. Secondo video, foto e testimonianze, squadre di assadisti hanno radunato gli uomini, li hanno incolonnati – prima hanno fatto togliere loro le scarpe e gli hanno fatto tirare camicie e magliette sopra la testa, per impedire la fuga – li hanno fucilati e hanno, in molti casi, bruciato i corpi. Hanno anche sparato a donne e bambini: ieri la Mezzaluna rossa è entrata nell’abitato e ha trovato cataste di corpi, come in Ruanda durante la pulizia etnica (ma qui la differenza è di fede). Gli abitanti risparmiati dalla violenza sono fuggiti. Per ora ci sono 141 nomi già verificati, ma attivisti locali dicono che il numero finale sarà più alto. Su questo eccidio di sunniti la Commissione delle Nazioni Unite per le violazioni dei diritti umani in Siria per ora non ha speso una parola.

Ora abbiamo un quadro più chiaro degli strike israeliani su Damasco degli ultimi quattro giorni. Non sono stati due, giovedì notte e domenica prima dell’alba: c’è n’è stato pure un terzo, venerdì notte, contro l’aeroporto internazionale di Damasco. Quest’ultima notizia, verificata soltanto ieri, conferma che il raid di Israele non è stato soltanto una mera operazione militare per bloccare un trasferimento di missili dall’arsenale siriano al gruppo libanese Hezbollah. E’ stato un’operazione più complessa, con un obbiettivo più vasto e che ha minacciato l’esistenza stessa del governo siriano. Gli aerei israeliani restando nello spazio aereo libanese hanno colpito l’area a nord della capitale siriana, densa di installazioni militari; anzi, è quella la linea difensiva più munita a disposizione del governo contro l’avanzata dei ribelli. Ci sono state quaranta esplosioni, comprese alcune fortissime registrate dai sismografi che hanno toccato il terzo grado della scala Richter e che hanno fatto pensare all’uso di bombe “bunker buster” – quelle costruite per penetrare le calotte protettive in cemento armato dei bunker iraniani. Tra gli obbiettivi anche i reparti scelti della Guardia Repubblicana guidati dal fratello del presidente Bashar el Assad, Maher. Il messaggio israeliano: l’alleanza con Iran e Hezbollah può essere la fine del regime, che resterà senza difese davanti ai ribelli. Gli americani prendono nota: colpire l’esercito di Damasco si può, non è così difficile.

di Daniele Raineri   –   @DanieleRaineri, 6/5

Solo gli utenti registrati possono commentare gli articoli

Per accedere all'area riservata