Da sempre le parti sociali puntano ai soldi pubblici,

senza accettare riforme

Svuotate le norme Monti-Fornero sulla produttività. Solita strategia sindacati-Confindustria, dice Tiraboschi

“Si è scelto di attingere ai fondi pubblici, senza cambiare nulla nelle relazioni industriali. E non è la prima volta che succede”. Così Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del Lavoro all'Università di Modena e Reggio Emilia e direttore del Centro studi Marco Biagi-Adapt (intitolato al giuslavorista ucciso nel 2002 dalle Brigate Rosse e di cui Tiraboschi fu allievo), sintetizza la vicenda della detassazione del salario di produttività ricostruita dal Foglio sabato scorso. In estrema sintesi: lavorando dietro le quinte, la Cgil, d’accordo con Confindustria e con i sindacati detti “riformisti”, è riuscita in questi mesi di caos politico ad annacquare le norme introdotte dal governo Monti alla fine dello scorso anno per incentivare la produttività in azienda attraverso sgravi fiscali. Risultato: gli sgravi ci saranno, ma senza le condizioni stringenti che erano state previste da Mario Monti e il ministro del Lavoro, Elsa Fornero. “E’ un sasso nello stagno del dibattito pubblico italiano, ma non sono sorpreso – dice Tiraboschi al Foglio – Le relazioni industriali d’altronde sono l’arte del possibile e, al di là delle schermaglie ideologiche e delle convenienze del momento, occorre poi dare sempre una risposta concreta ai lavoratori”. Con l’accordo siglato il 24 aprile tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil – in attuazione definitiva di quella stessa intesa che nel dicembre 2012 la Cgil ancora giudicava un attacco ai lavoratori – “si dà un po’ d’ossigeno ai lavoratori garantendo buste paga leggermente più pesanti. Dal punto di vista del sindacato, un obiettivo legittimo. Il punto è semmai un altro – continua il giurista -  e cioè la lungimiranza o meno di un accordo sindacale che, per essere sostenibile e utile, dovrebbe utilizzare le scarse risorse pubbliche per creare maggiore produttività e non solo per ridurre il peso fiscale sul lavoro. Usate così, le somme destinate alla detassazione rischiano di essere risorse gettate al vento”.

Sono diversi i modi in cui, secondo Tiraboschi, l’intesa auspicata dal governo a fine 2012 e poi trasformata in decreto a inizio 2013, è stata modificata in senso decisamente conservatore dal lavorìo delle parti sociali di questi ultimi mesi, fino a “svuotarla” di senso, aggiunge. A partire dal richiamo esplicito allo Statuto dei lavoratori nuovamente a fianco alle aperture legislative sul “demansionamento” o sul controllo dell’ambiente di lavoro. “L’intesa del 24 aprile (quella tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil che ha fatto cambiare posizione alla Cgil, ndr) paralizza, quantomeno in chiave intersindacale, il ricorso al discusso ‘articolo 8’ del 2011, introdotto dall’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e su cui mi pare che il Foglio fu l’unico giornale a spendere parole positive, che appunto prevedeva, in presenza di determinate motivazioni, ampie deroghe allo Statuto dei lavoratori, tra cui la rigida disciplina delle mansioni e l’antiquata norma statutaria relativa all’utilizzo delle tecnologie. Fatti salvi i paletti della Costituzione e delle normative europee”. Inoltre, per evitare di distribuire fondi “a pioggia”, il ministro Fornero prevedeva due “binari” per l’assegnazione: il primo passava per il riferimento a “indicatori quantitativi di produttività/redditività/qualità/efficienza/innovazione”, il secondo imponeva di scegliere almeno una misura in tre diversi campi su quattro (rimodulazione degli orari, redistribuzione delle ferie in modo più flessibile, impiego di nuove tecnologie per controllare l’ambiente di lavoro o spostamento di un dipendente da una mansione all’altra). Ora, rivendica la Cgil, il “secondo binario” – quello più innovativo - è annullato, avendo fatto rientrare la semplice modifica degli orari tra i criteri del primo binario. “E’ un film già visto. L’accordo del 24 aprile ricalca quelle intese sulla detassazione degli anni passati che avevano finito con lo svuotare i precetti legali da cui erano partite”, osserva il professore. Si spieghi meglio: “La misura di detassazione del salario di produttività – dice Tiraboschi – risale al 2008 e, nel suo impianto originario, era affidata alla contrattazione individuale. Solo successivamente, per sostenere il nuovo modello contrattuale siglato a gennaio 2009 tra governo, Confindustria, Cisl e Uil, ma non Cgil, si decise di vincolarne l’applicazione all’attivazione di accordi collettivi di secondo livello di tipo territoriale o aziendale. Anche allora poi, le parti sociali, per recuperare la Cgil, alla fine sottoscrissero nel marzo 2012 un accordo che svuotava la legge consentendo di fatto di detassare voci previste dalla contrattazione collettiva nazionale. In altre parole: bastava richiamare pedissequamente dette voci nazionali in un accordo territoriale di facciata per ottenere la copertura”. Altro che contrattazione aziendale per avvicinarsi alle esigenze produttive della specifica azienda. “L’accordo attuale, e la relativa circolare ‘pilotata’ dalle parti sociali, si muove esattamente in questa direzione. Cioè rende operativa la misura a favore dei lavoratori senza mettere in discussione punti qualificanti e critici del modello contrattuale che finirebbero per spaccare il fronte sindacale”. I soldi pubblici e l’unità sindacale prima di tutto, insomma: “Una mossa certamente contraria alle intenzioni del legislatore e certamente poco lungimirante – chiosa Tiraboschi – ma che si comprende nell’ottica della delicata operazione di ricomporre l’unità sindacale e riscrivere le regole della rappresentanza secondo quanto previsto dal documento unitario Cgil-Cisl-Uil del 30 aprile che, non a caso, segue di pochi giorni la ritrovata intesa sulla detassazione”.

Anche Confindustria ci ha messo del suo accettando che, in un documento interpretativo privato firmato con Cgil-Cisl-Uil dopo la circolare, tornasse a fare capolino il Contratto collettivo nazionale di lavoro (Ccnl). Sul punto Tiraboschi sostiene che in un momento di crisi occorre “consapevolezza anche delle giustificazioni e del pragmatismo di chi vive dal di dentro le criticità del nostro sistema ingessato di relazioni industriali”, e quindi comprensione per chi “gestisce nelle aziende, con le stesse rappresentanza sindacali e la Cgil, numerosi accordi di cassaintegrazione e solidarietà”, ma poi dice: “Chi difende ad oltranza la gerarchia delle fonti contrattuali nazionali non difende i lavoratori ma un dogma che, ovviamente, non è sufficiente per tutelare le persone in carne e ossa, per consentire alle nostre imprese di competere sui mercati internazionali. Il centralismo regolatorio si traduce, di conseguenza, in rigidità intollerabili che danno luogo a disoccupazione per i lavoratori e alla fuga delle imprese dall’Italia verso mercati più concorrenziali. E non parliamo del Terzo mondo, ma di paesi come la Germania e l’Olanda, dove si praticano senza problemi le deroghe contrattuali di secondo livello”.

Per far saltare questo schema di consociativismo al ribasso, le relazioni industriali dovranno svilupparsi perlomeno sotto tre aspetti: “Se i protagonisti delle trattative non vogliono o non possono cambiare, anche perché una rappresentanza del mondo del lavoro di tipo verticale e di categoria non può che difendere a oltranza il ruolo del Contratto collettivo nazionale, si potrebbe sempre affidare per il prossimo anno, come avvenuto sulla carta nel 2008 e nel 2009, la gestione del salario di produttività alla contrattazione individuale, scavalcando le parti sociali”, propone Tiraboschi all’attuale esecutivo.Sicuramente poi andrebbe superato quel “limite culturale” del nostro paese, che alimenta “la politica gattopardesca e il piccolo cabotaggio”, avviando finalmente “una valutazione dell’impatto delle riforme sia quando vengono progettate che quando vengono attuate”. Oggi Tiraboschi lo sta facendo con il suo centro studi, Adapt, ma ammette che anche il ministro Sacconi, di cui lui fu consulente, non ci riuscì fino in fondo. Infine: “Oltre a non lasciar cadere la delega sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, contenuta nella riforma Fornero, il vero snodo è quello della rappresentanza. Per il sindacato, essa dovrebbe tornare di più alle origini, cioè diventare una rappresentanza di mestiere e non di categoria. Il sindacato dovrebbe quindi smettere di inseguire l’idea di regolare la concorrenza su logiche nazionali e settoriali, e riprogettare la propria rappresentanza sulla persona, sulle competenze professionali e di mestiere”. Più concorrenza nel mercato del lavoro, più autonomia e responsabilità individuale, più potere di contrattazione a livello aziendale: visto come è andata con gli 1,6 miliardi di euro di fondi per incentivare la produttività, anche un programma “riformista” appare d’un tratto “rivoluzionario” di Marco Valerio Lo Prete   –   @marcovaleriolp

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