Grasso in eccesso. Ricorda Moro e reclama

una “verità” che c’è già ma non gli basta

Quoque tu, Pietro Grasso? “Il ricordo non basta”, ha detto ieri nel giorno del Ricordo delle vittime del terrorismo per poi aggiungere – sospendendo in un istante la fissità del suo sorriso – che “bisogna conoscere la verità”. Ieri, nove maggio, trentacinque anni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, le più alte cariche dello stato hanno offerto una corona di fiori in via Caetani e il presidente del Senato ha impetrato la verità al punto tale che questa non è più un fatto concreto – gli esecutori materiali e i grandi vecchi, giusto quelli del delitto Moro, sono stati assicurati alla giustizia – ma un’implorazione. A quanto pare la verità, specie quella giudiziaria, è inutilizzabile. Le verità raggiunte, costruite dalla fatica della magistratura e della polizia, evidentemente non convincono. E la verità, in questo lapsus di Grasso, è dunque solo un mito perché oltre il mandante in carne e ossa, spesso assicurato alla giustizia, c’è sempre quello “occulto” da andare a cercare. A Capaci, per fare un altro esempio, gli stragisti e tutti gli architetti di quell’infamia sono stati consegnati alla galera eterna e nel caso di Grasso, allora, viene da dire: “Parla proprio lui”, lui che avendo avuto, da capo della procura nazionale Antimafia, tutti gli strumenti per accertare la verità e affermare la legalità, risulta il meno titolato? Se c’è ricordo e non c’è verità, per logica conseguenza, vuol dire che carenza nel suo ufficio ci fu. Questo è Grasso. Non ne sta indovinando una e s’atteggia, non trovò la verità e oggi – da professionista del lisciapelo qual è – la implora. Quella verità della verità sua che, va da sé, se non colpisce il nemico politico, oplà, non è più verità, ma una commissione bicamerale d’inchiesta. Quotidiano F

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