Perché le larghe intese fanno bene al Pd

Riforme economiche, rivoluzioni istituzionali,

nuovi bipolarismi, eredità del montismo. Oltre le comunali c’è di più. Breve saggio su come il Pd può sopravvivere alle larghe intese

Un documento  dei PD  Morando e Tonini

Il Pd, per tornare a essere competitivo a livello nazionale, ha di fronte a sé due strade. La prima, è quella che ci piace di più e che abbiamo tentato di praticare prima con Veltroni al Lingotto e poi con Renzi alle primarie: una visione sul futuro del paese, un programma, un partito e un leader che escono dal recinto della sinistra tradizionale, vanno nel campo avversario e conquistano un bel po’ di voti dei delusi dal centrodestra. La seconda – apparentemente più realistica, ma meno coerente con l’esigenza di radicale cambiamento che nasce dalla crisi – è fondata sull’idea che… no, questa “vocazione maggioritaria” non corrisponde al carattere della sinistra italiana, che deve perciò unirsi – prima di tutto: l’unità della sinistra –, per poi farsi regista di un ben equilibrato sistema di alleanze politiche, che le consentano, dopo aver portato a casa i “suoi” voti, di farli valere sul tavolo della coalizione con altri partiti – di centro o moderati che dir si voglia – per la formazione del governo. Tertium non datur? Esattamente. Ma non per il Pd di Bersani e Franceschini. Entrambi i protagonisti del congresso del 2009 hanno prima risolutamente accantonato ogni ambizione di conquista del consenso in fuga dal centrodestra (proprio mentre lo stesso si apprestava a perdere un voto ogni due conquistati nel 2008); per poi relegare a mera ipotesi per il post voto (e solo in caso di mancanza della apparentemente vituperata e, in realtà, pervicacemente inseguita autosufficienza) l’alleanza con l’unica forza di centro nel frattempo emersa (e dotata di un consenso forse inferiore alle attese, ma comunque ben superiore a quello fatto registrare dall’Udc nel 2008). Fuoriuscito dalle uniche due strade possibili, il Pd ha condotto il confronto elettorale senza un orizzonte strategico. Errori di comunicazione? Ce ne sono stati molti. Ma se ci siamo ridotti a “smacchiare il giaguaro” è perché abbiamo cercato di nascondere dietro alla contrapposizione nei confronti dell’avversario di sempre il deficit di credibilità della nostra proposta di governo. Impegni programmatici poco incisivi? Certamente. Ma è molto probabile che, dati i limiti di politics del Pd, anche più accurate scelte di policies non avrebbero sortito effetti elettorali migliori.

La stessa gestione della fase post voto discende direttamente da questo vuoto strategico: l’oscillazione tra il “governo di combattimento” con Grillo – che si è pensato di favorire con l’operazione presidenti delle camere – e la formazione del governo organico col Pdl, non ha altra spiegazione sensata. Né c’è da stupirci che siano così numerosi i militanti e gli elettori del Pd che si mostrano oggi sconcertati di fronte alla scelta di concorrere col Pdl alla formazione del governo Letta: il vuoto di strategia che ha caratterizzato il Pd nell’ultimo anno è stato infatti riempito (?) da una sola affermazione, forte e chiara: mai e poi mai il governo col Pdl (ma sarebbe più giusto dire: con Berlusconi)…

Dunque, hic Rhodus, hic salta: il primo compito del congresso – e in particolare di chi si candida alla leadership – è quello di dare al Pd una strategia chiara, scegliendo tra le due possibili. Non si dica che si tratta di un nodo già sciolto: la violenta polemica condotta da quasi tutto il gruppo dirigente del Pd contro la “pretesa” di Renzi di puntare alla raccolta del consenso nel campo avversario è lì a dimostrare che la questione non risolta è tutta dentro di noi, e riguarda l’idea stessa della funzione del Pd, tra il partito orientato verso l’esterno, nel tentativo di rappresentare la maggioranza degli italiani, e il partito introflesso, che vuole parlare solo ai suoi elettori tradizionali e si affida, per il resto, alla spregiudicata ricerca di alleati. Distinzione politicista priva di effettiva influenza sul progetto di cambiamento del paese di cui il Pd si deve fare attore? A noi sembra vero il contrario. E pensiamo che la vicenda del posizionamento programmatico del Pd in questo ultimo anno lo dimostri ampiamente: dal sostegno leale all’agenda del governo Monti al suo sostanziale rigetto; dalla difesa delle province contro il decreto del governo per il loro accorpamento fino al ripudio del finanziamento pubblico ai partiti; dal rifiuto di ogni ipotesi di riforma in senso semipresidenzialista, nel giugno del 2012, alle recenti aperture di Bersani verso la soluzione francese, non c’è stato un solo problema reale del paese sul quale il Pd non abbia piegato la “sua” soluzione programmatica alle contingenti esigenze della alleanza politica perseguita in quel momento.

Ora c’è il governo Letta-Alfano. E’ bene che si sia formato, per superare lo stallo determinatosi col voto. E deve mettersi – ed essere messo dai partiti che lo sostengono – in grado di agire con efficacia. Prima condizione per farcela: non assumere come obiettivo prioritario quello di durare nel tempo. Vale a dire: attenzione a raggiungere la fine di luglio avendo messo in cascina solo il decreto di rinvio della rata dell’Imu prima casa e l’approvazione, magari in un solo ramo del Parlamento, di una legge costituzionale per fondere in una le due Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, cui affidare il compito di redigere un testo sul quale poi le Camere si pronuncerebbero con un solo voto, prendere o lasciare. Il tutto motivato dal fatto che il Senato non ci starebbe a fare la parte del tacchino nell’imminenza del Natale. Rinvio infra-annuale di scadenze fiscali, preziosi mesi della luna di miele passati a discutere (con referendum ex 138 incombente) dello strumento per elaborare proposte di riforma già tecnicamente definite in decine di disegni di legge: se non è una tattica per tirare a campare, le somiglia pericolosamente.

Noi pensiamo che il presidente Letta dovrebbe scegliere un altro approccio: un disegno di riforma costituzionale proposto dal governo – è per fare scelte di questo tipo che è nato dalla eccezionale cooperazione di partiti altrimenti alternativi – e messo immediatamente all’ordine del giorno delle Commissioni Affari costituzionali, seguendo la procedura dell’art. 138. Impegnandosi in partenza, anche in presenza del voto favorevole dei due terzi del Parlamento, a promuovere il referendum confermativo. Se c’è accordo politico, non sarà il voto su qualche centinaio di emendamenti a impedire la riforma. Se non c’è accordo politico, non sarà una Commissione speciale con funzione redigente a crearlo.

Il problema, semmai, è il merito. Di quali riforme istituzionali ha bisogno il paese? Noi restiamo convinti che solo la soluzione semipresidenziale alla francese – tutta: elezione diretta del Presidente col doppio turno di ballottaggio tra i primi due; una sola camera politica di 500 membri, eletti col maggioritario di collegio uninominale a doppio turno – sia oggi in grado di fornire una risposta alla crisi del sistema politico-istituzionale italiano, che non può essere affrontata nell’ambito del sistema di governo parlamentare vigente, semplicemente perché esso funziona bene se i partiti che lo innervano sono forti e autorevoli. Mentre gli attuali partiti italiani… Né ci sembra realistica e utile la proposta di “volare basso”, limitandosi a introdurre nel porcellum una soglia minima di accesso al premio. Non è realistica, perché la renderebbe alla fine impraticabile il calcolo di parte di chi pensa, sondaggi alla mano, di vincere le prossime elezioni senza raggiungere quorum particolarmente elevati (questa volta, a ragionare così, potrebbe essere il Pdl). E non è utile, perché – stanti gli attuali orientamenti di voto – l’introduzione della soglia, senza altri correttivi, servirebbe solo a rendere obbligatorio, per un lungo periodo, il ricorso alla formazione di governi Pd-Pdl-Scelta civica. Una prospettiva che allargherebbe il principale spread che separa il nostro paese dagli altri grandi dell’euroarea: quello che nasce dal pessimo funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale. Uno spread, quest’ultimo, che incide ormai anche sulle aspettative degli attori fondamentali dell’economia reale: nel gennaio scorso, quando sembrava vicina una svolta, la produzione industriale cresceva ad un buon ritmo, per poi subire un forte calo nei due mesi successivi, quando l’incertezza è tornata a farla da padrona.

L’approccio minimalista è dunque da respingere, e il Pd ha un ruolo essenziale da svolgere, se pretende che l’occasione della grande coalizione Pd-Pdl-Sc sia utilizzata per realizzare il salto di regime democratico atteso da più di vent’anni: deve quindi smetterla di dichiararsi “disponibile anche a discutere” di semipresidenzialismo e sistema elettorale francese, per assumere questa come la “sua” soluzione, sulla quale costruire consenso, mobilitazione politica e alleanze, nel paese e nel Parlamento, senza tentennamenti, imbarazzi e pentimenti di fronte alla domanda chiave: ma come, l’elezione diretta del Presidente con Berlusconi ancora in campo? La risposta di un Pd finalmente consapevole della sua funzione e della sua forza non può che essere: sì, in primo luogo perché il buon assetto del sistema politico italiano non può essere subordinato – non importa se per favorire od ostacolare – al destino di una singola personalità politica. E, in secondo luogo, perché noi Pd abbiamo la forza, la leadership, la credibilità di governo necessarie per battere Berlusconi in campo aperto, accompagnandolo al pensionamento politico.

E per l’economia? Dobbiamo approfittare a pieno delle nuove condizioni di credibilità in Europa – acquisite grazie al lavoro del governo Monti – per ottenere risoluti passi in avanti sul terreno della unione bancaria (gli accordi si sono fatti: è giusto esigerne ora l’attuazione), dell’unione fiscale e politica (qui la novità è la posizione di Hollande, che rompe il tabù francese della cessione di sovranità), della politica economica comune (a partire dalla cartolarizzazione dei crediti verso le PMI – sì, i derivati non sono prodotti del demonio: possono servire cause giuste – , con la Bce che assume su di sé una parte del relativo rischio di credito).

Qualcosa si muove anche in Germania, malgrado la paura delle elezioni di settembre faccia novanta. La IGMetall e gli industriali bavaresi hanno firmato un accordo – che ora farà da guida per tutta la Repubblica federale – che prevede un aumento salariale del 3,4 per cento nel 2013 e di altri 2,2 punti percentuali nel 2014. Salari che salgono, consumi che crescono, importazioni tedesche in aumento: il risultato può essere anche una significativa mitigazione della recessione italiana. Condizioni per il successo: non mettere a rischio la fuoriuscita dalla procedura di infrazione per indebitamento eccessivo; non rinviare le riforme strutturali necessarie per il recupero di competitività; occupare gli spazi finanziari aperti dall’azione del governo Monti con scelte effettivamente orientate alla crescita.

Olivier Blanchard, cui va il merito di aver coordinato le ricerche del Fmi sulle dimensioni del moltiplicatore – cioè sulla corretta valutazione degli effetti recessivi, decisamente più alti di quanto si ammettesse prima, degli interventi di risanamento dei bilanci pubblici – ha recentemente ribadito che nei paesi a debito pubblico elevato “sono troppi i rischi per lasciare aumentare ancora il debito. In un’economia col debito al 120 per cento del Pil, non ci vuole un grande aumento dei tassi per rendere altissimo l’onere degli interessi e il debito totalmente insostenibile”. L’equilibrio da trovare è difficile, ma non impossibile: la riduzione del debito non può e non deve essere troppo rapida, perché il risanamento nel breve periodo contrae la domanda e il reddito. Allo stesso tempo, conclude Blanchard, “se uno dice: comincio l’anno prossimo, non è credibile. La risposta è procedere a passo costante e misurato”.

Avendo un debito più grande, in rapporto al prodotto, l’Italia ha fatto bene a procedere a velocità più elevata verso l’obiettivo di medio termine dell’equilibrio strutturale di bilancio. Ma deve ora modificare la composizione dell’aggiustamento. Gli studi di Alesina e Ardagna dimostrano infatti che le riduzioni di spesa pubblica, pur non avendo effetti espansivi del pil, hanno tuttavia un minore effetto negativo sulla crescita rispetto agli aumenti di pressione fiscale. E’ dunque sulla composizione dell’aggiustamento – cioè sul diverso apporto alla correzione delle minori spese e delle maggiori entrate – che il governo Letta deve agire per un rapido riequilibrio. Bisogna riconoscere che, in proposito, il discorso programmatico del Presidente del Consiglio ha destato non poche preoccupazioni: nessun impegno preciso, quantitativo e temporale, sulla revisione della spesa, a fronte di nuovi impegni che recano oneri per quasi un punto di Pil.

In assenza di precisi obiettivi di risparmio – da realizzare attraverso la madre di tutte le riforme: la spending review – l’unico intervento di politica fiscale realizzato dal governo (rinvio della rata di giugno dell’Imu) alimenta l’incertezza e non favorisce la ripresa, perché induce i fondamentali attori economici a ritenere che il governo ricavi le sue priorità dalle esigenze di coesione della maggioranza che lo sostiene, piuttosto che dall’imperativo di far tornare il Paese alla crescita.

Letta si è impegnato a “superare” l’Imu prima casa e non può smentirsi? Certamente. Deve dunque procedere a ridisegnare entro agosto la tassazione sulla casa, ma può farlo a parità di gettito da imposte patrimoniali, mobiliari e immobiliari. È infatti ampiamente possibile che i 4 mld che servono per esentare (o quasi) tutte (?) le prime case, siano ricavati da rimodulazioni delle aliquote e dal ridisegno delle basi imponibili di tipo patrimoniale, a partire dalla revisione del catasto. E se, per ottenere questo risultato, bisognerà inquinare un po’ la purezza della base imponibile patrimonio con qualche riferimento alla condizione reddituale (Isee), si potrà senz’altro sopportare.

Studi Ocse e Fmi hanno dimostrato che le imposte sui patrimoni e sui consumi hanno effetti distorsivi molto limitati sull’economia, mentre quelle sui redditi da lavoro e da impresa incidono negativamente sul potenziale di crescita: l’Italia ha il record mondiale del Total Tax Rate (pressione fiscale e contributiva sui produttori). Non può certo sorprendere che abbia anche quello della decrescita infelice.

Mentre si lavora per ridurre le dimensioni dell’evasione, il Total Tax Rate si può fare progressivamente scendere agendo sulla spesa. Dall’operazione spending review – a livello centrale e periferico – è infatti possibile ricavare altri 45 mld in 3 anni, ulteriori rispetto a quelli già programmati a legislazione vigente. Tre punti di Pil, uno per anno. Queste risorse, sommandosi agli spazi finanziari aperti dalla fuoriuscita dalla procedura d’infrazione e dal carattere strutturale, non nominale, dell’equilibrio di bilancio previsto dalla Costituzione, potrebbero a quel punto essere usate per eliminare lo spread del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro. Non è un sogno. Oggi, per un salario netto pari a 100 di un suo lavoratore non sposato, l’impresa italiana che gli dà lavoro sopporta un costo pari a 200. Questo rapporto, nella media dei Paesi europei, è pari a 1,7. Poiché l’Istat ci informa che, nel 2011, l’ammontare dei contributi sociali è stato pari a 216 mld, se ne può ricavare (F. Giavazzi, Corriere della Sera, 29/4/13) che, in tre anni, l’Italia potrebbe chiudere il divario rispetto alle dimensioni medie del cuneo fiscale, impiegando, a questo scopo, circa un punto di Pil all’anno.

E’ un cammino che può cominciare subito: M. Marè e F. Pammolli hanno recentemente calcolato che uno sgravio di ben 8 punti percentuali – ripartito equamente tra lavoratore e impresa – dei contributi che gravano sui lavoratori di età inferiore ai 35 anni (5 mln, nel settore privato), successivamente esteso a tutti i lavoratori neo assunti (a tempo determinato e indeterminato), darebbe luogo ad un onere per il bilancio dello stato pari, nel primo anno, a 4,6 mld di euro. Un sacrificio, in termini di mancato gettito, simile a quello determinato dall’abolizione dell’Imu prima casa, ma ben più efficace sul versante della crescita. Condizione perché l’intervento modifichi effettivamente le aspettative: che si tratti di un progetto compiuto, nell’obiettivo finale e nelle sue tappe intermedie, presentato dal governo e sostenuto dai partiti della maggioranza, che debbono impegnarsi a non rimetterlo in discussione anche quando, dopo il prossimo voto, torneranno a “normali” governi dell’alternanza. L’esempio tedesco dimostra che le grandi coalizioni servono soprattutto a questo.

di Enrico Morando e Giorgio Tonini, 28/5

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